"I medicamenti popolari II "

Omaggio a una fotografia bellissima (dal gruppo FB Tutta-Rocca di Papa)

 

(Maria Pia)

 

 

...Ma su alcuni remeddi (rimedi) tutti i paesani erano d’accordo. Prima di tutti l’olio. Il proverbio “L’ oju d’a luma ‘gni male consuma” (L’olio del lume ogni male consuma) veniva citato sempre a proposito, allorché si spalmava, riscaldato, sui geloni o sul collo dolorante per il torcicollo, oppure, emulsionato con l’acqua, sulle scottature o sui sederini arrossati dei lattanti – per lo stesso scopo rinfrescante si usava spolverizzarli con la farina di granturco, detta semplicemente polenta.

Vera toccasana, ‘na mani santa (una mano santa), per le slogature era l’albume, montato a neve, addizionato con amido. Una donna, denominata ‘A storta, provvedeva a rimettere in sesto le ossa di braccia e gambe.

Salutare per il mal di stomaco veniva ritenuta l’acqua in cui avevano bollito alcune radici di pungitopo – per sprigionare tutta la sua efficacia doveva, però, restare una notte a’ serena (al sereno) -, mentre la ruta, oltre che come antidoto ai malefici delle streghe sui nascituri, era sicuro rimedio contro il verme solitario.

E contro gli spaventi nessuno metteva in dubbio un medicamento di pronto effetto e di uso frequentissimo in ogni casa, ‘o carbómmorzatu.

Ecco che qualcuno grida, impallidisce, ha il cuore in tumulto. Subito un familiare o una vicina di casa lo fa sedere, gli mesce due o tre dita di vino in un bicchiere e rapidamente vi getta dentro un tizzo di carbone ardente. Lo spaurito aspetta che cessi il lieve sfrigolio; poi, già rassicurato dalla viva partecipazione dei presenti, beve il liquido intorpidito. (Alcuni toglievano il carbone, altri no; ai bambini si preferiva smorzarlo nell’acqua).

Per le malattie da raffreddamento, naturale o sovrana terapia era il calore, seppur in varie forme: in tanto il vino in cui aveva bollito una buccetta di limone o di arancia, come ben consigliava il detto “Raffreddore, vinu a remóre”, al raffreddore serve il vino bollito, che ha fatto rumore; poi acqua di mele secche dolcificata con miele o, in mancanza di queste, l’acqua in cui avevano bollito le castagne ‘nfornatelle.

In presenza di una bronchite o di una polmonite – poteva essere letale – alla persona costipata si somministrava subito una tazza di latte caldo con miele (e a volte lichene); in seguito l’ammalato doveva tenere lungamente sul petto un mattone riscaldato al fuoco, avvolto in un panno di lana, oppure un sacchetto di cenere calda o un impiastro di farina gialla.

Per i bambini, invece, generalmente si bucava con una forchetta della carta straccia, allora di colore azzurrognolo, e se panognéa co’ ‘a cannéla ‘e segu (si ungeva bene con la candela di sego), per porla poi sul petto del malato coperta da una pezza di lana.

Gli impiastri caldi erano comunissimi. Potevano essere preparati, oltre che con farina di granturco, anche con semi di lino o crusca grassa (con parecchia farina), ma soprattutto per i foruncoli – solo poche famiglie usavano ‘u tàrulu – la maggioranza della popolazione si giovava di un amalgama di mollica di pane, bagnata e strizzata, a cui si aggiungevano un po’ di sale e di zucchero, qualche goccia d’olio e, se erano reperibili, foglie di malva.

In quei tempi di miseria e di fame non di rado i ragazzi finivano per divorare il loro impiastro e le madri, dopo grida e rimproveri, dovevano impastarne un altro.