“Il fidanzamento”

 

(Maria Pia)

 

Nel silenzio della notte le serenate, con un mandolino, una chitarra e una voce solista (poteva essere lo stesso innamorato o un altro da lui incaricato) allietavano di quando in quando i diversi rioni. A volte per accompagnamento alla voce si usava il trombone, (“…unu cantéa e unu col trombone facéa pon-pon, pon-pon; facéa ‘u bassu:

Bella che dormi, svegliati!

Sono il tuo amante, o cara

non posso un’ora goderti

vengo a svegliarti ancor.

‘Ffàccete a la finestra

‘ffàccete a quella chiusa,

méttite qualche scusa,

vengo a svegliarti ancor,

vengo a svegliarti ancor”).

 

Prima e durante il fidanzamento i giovani d’ambo i sessi venivano subissati di consigli, spesso desunti dal patrimonio dei proverbi e dei detti paesani: “Se tié da pià moje, pensai bbè, che n’etè ‘n callàru che se po’ cambià” (Se devi prendere moglie, pensaci bene ché non è un caldaio che si può cambiare). E alla donna: “Omo de vinu no’ mmale ‘n quatrinu” (Uomo che beve, non vale un quattrino), “Pe’ bbuónu ‘n t’u pià, pe’ cattivu n’u lascià…” (Non lo sposare per la bontà, non lo lasciare per la cattiveria: le cose cambiano…), “Maritu de’la tua villa e compare de cento mija”. Il marito è bene sia del paese, ma il compare che stia lontano perché fra il compare e la comare si crea troppa intimità. Infatti: “U compare co’ ‘a commare fa come se pare”.

I requisiti che i genitori apprezzavano nei futuri generi e nelle nuore erano la salute e la voglia di lavorare. Per l’uomo era importante possedere una certa vigoria fisica; se un giovane non aveva portato a termine il servizio militare di leva, trovava difficilmente moglie. La relativa sentenza era esplicita: “Chi nn’è bbuónu pe’ ‘u re, mancu pe’ ‘a reggina” (Chi non è buono per il re, non lo è nemmeno per la regina). Dire a un uomo “scartu de leva” era una pesante ingiuria.

(Gli uomini, invece, per offendere le donne paragonavano il loro viso a una caldarrosta rammendata oppure al manico di una paletta arruginita. “Muccu de callarosta reppezzata, manicu de paletta ‘rruzzunita!”.

Anche ‘a razza (la discendenza) aveva notevole importanza, perché “A’ ppete a’ ficora nasce ‘a ficorella” (Al piede del fico nasce il pollone).

Se il denaro c’era, era gradito, ma non indispensabile. A una figlia la madre poteva consigliare “Chissu t’u po’ pià ch’é panaruólu, n’ te mancarà mmai ‘o pa’ all’arca…” (Questo te lo puoi sposare perché in grado di procurarti il pane, che non ti mancherà mai nella madia). Ma poi le decisioni finali erano interamente dei giovani.

Con il consenso dei genitori il fidanzamento diventava ufficiale, ma i giovani si potevano incontrare solo nei giorni stabiliti, il giovedì e la domenica e mai da soli. Se per caso durante le visite serali andava via la luce, subito uno dei genitori esclamava: “Piéte ‘a cannéla…!” (Prendete la candela!) per non lasciare neanche qualche minuto i fidanzati al buio.

(“…Le ragazze fidanzate uscivano con le amiche e gli uomini con gli amici. Si vedevano nelle case, davanti ai genitori. Dio ne scampa che ti vedevano parlare fuori!”).

(“…Uscivo a prende’ l’acqua a’ fontana; al ritorno mi fermavo: me stéa a ‘spettà issu. Chetuccia ‘a Daga me vedéa da ‘a finestra e jéa a chiamà mamma: Curi, Adelà, ché fìeta sta a descure…”).

I rapporti tra fidanzati erano dunque, per lo più, casti o castissimi. Anche a voler infrangere le regole, c’era il grande occhio dei genitori, dei parenti, dei vicini, del paese intero sempre lì a vigilare.