I medicamenti popolari

(La farmacia in Piazza dell'Erba)

 

(Maria Pia)

 

I medicamenti popolari

A quel tempo la farmacia era spesso deserta. Il farmacista, ‘u speziale Sor Augusto, aveva arredato la retrobottega con un tavolo e delle sedie.  Lì convenivano, per scambiare quattro chiacchiere, il medico condotto e i pochi che avevano avuto una certa familiarità con gli studi; fra una preparazione galenica e l’altra si trovava sempre il tempo di una partita a carte. Per le prescrizioni più semplici il farmacista aveva un aiutante, Gigetto, che con gli anni era diventato un vero esperto e dispensatore di consigli. (“Gigetto pestava nel mortaio, chiudeva le fiale con una macchinetta a spirito e preparava le cartine…”).

Se alla farmacia si ricorreva era quasi sempre solamente per poche specialità: oju ‘e ricenu (olio di ricino) e Magnesia S. Pellegrino per le purghe, Santolina, uno sciroppo efficace per debellare i vermi intestinali dei bambini, lichene per la tosse, unguenti di varie specie, e mignatte, che si contorcevano in un gran vaso di vetro, per i salassi.

Per il resto si ricorreva abitualmente al bosco o alla campagna, a seconda che si frequentasse più l’uno o l’altra, o a secrezioni dello stesso corpo umano: l’orina era un comune disinfettante e il latte materno, immesso nel condotto uditivo, leniva il mal d’orecchi.

Le ricette domestiche non erano, però, identiche in tutto il paese; spesso variavano, tramandate di generazione in generazione, con il rione o con la razza e uno stesso materiale veniva considerato utile a guarire infermità diverse.

‘U tàrulu, il legno sbriciolato dai tarli, per alcuni era d’aiuto sulle piaghe lente a cicratizzare; altri, invece, lo impiegavano con soddisfazione sui ceculìni (i foruncoli).

Per il mal di pancia, che spesso faceva tribolare nonostante la terapia preventiva del sabato santo (alcune persone, sempre per lo stesso scopo, si grattavano il ventre al primo tuono di marzo) gli agricoltori usavano preferibilmente foglie di spinu (il rovo) o di iévolu (l’ebbio, una specia di sambuco) poste direttamente sulla pelle, o bevevano del vino in cui era stato pestato uno spicchio d’aglio – questa pozione serviva anche per calmare i dolori mestruali -, mentre i boscaioli preferivano mettere sull’addome le felci.

Per disinfettare le ferite c’era da scegliere tra ‘e téle ‘u ragnu (le ragnatele), il grasso dell’interno del cappello raschiato con un coltello, l’orina già menzionata (“pizzichéa sopra ‘a ferita…!”) e foglie di rovo;

i calli si ammorbidivano o con il succo di pomodoro o con strutto e acido salicilico amalgamati oppure vi si applicavano sopra le fettine di cipolla (le pellicine della cipolla servivano invece per i geloni);

il mal di gola guariva o almeno si attenuava con gargarismi di acqua e aceto o con l’applicazione esterna di una robusta saponata (un pezzo di stoffa inumidita su cui era stato strusciato abbondante sapone), oppure con foglie di bietola o fronne ‘e ricotta, sempre intorno alla gola;

contro la tosse convulsa era utile l’acquetta proveniente da fettine di cipolla tenute una notte in una scodella o il cosidetto “cambiamento d’aria”: si accompagnavano i bambini a Monte Cavo, a Palazzola…;

le verruche scomparivano, usando a discrezione personale, o il lattice dei fichi o quello del tarassaco, ‘a pisciacàna, oppure la rugiada dei campi a primo mattino;

per gli orzaioli serviva un ago da cucito passato sopra più volte, oppure l’antica usanza del bussare ad una porta e alla domanda: “Chi etè?” rispondere: “L’orajuòlu che te vè!” (Chi è? L’orzaiolo che ti viene!). E poi scappare di corsa per non essere visti, altrimenti l’espediente non funzionava.