La Pasqua - seconda parte

('e pizze de Pasqua)

 

(Maria Pia)

 

 

Così nei giorni che rievocavano la passione e la morte di Cristo, il paese era percorso dai suoni aspri e rauchi delle taccatàule e dei tric-trac, ma anche dalle voci squillanti e allegre dei bambini che smorzavano il senso di lutto e di mestizia generale.

Si allestivano i Sepolcri, anche nella chiesa di Palazzola, e sfilava la processione del Cristo morto, come in tutta Italia. Unica particolarità: alcune donne vestite di nero, con i lunghi capelli sciolti a coprire interamente il volto, seguivano la statua del corpo giacente del Cristo.

Il Sabato Santo, verso le undici, si scioglievano le campane ed era tutto uno scampanio che riempiva il cielo e rimbalzava sui tetti e sulle facciate delle case.

Tutti interrompevano il lavoro, si facevano il segno della croce – molti recitavano il Credo – e poi bottegai, artigiani, le donne nelle case, pure i passanti nelle strade, cominciavano a grattarsi la pancia; i bambini interrompevano i loro giochi perché le madri dalle finestre li chiamavano: “Mario, Marì, ‘rattétei ‘a panza!” e intanto si grattavano esse stesse. (“Mia madre mi chiamava sempre perché mi grattassi...”).

Anche i lattanti venivano sfasciati e coscienziosamente strofinati dalle madri. Era una grattata collettiva che portava bene, ma soprattutto, secondo la credenza, evitava futuri mal di pancia.

Di lì a poco sarebbero usciti i sacerdoti per la benedizione delle case.

Nelle stanze tutto era in ordine e le tavole, rivestite da tovaglie odorose di bucato, erano imbandite con il cibo del giorno di Pasqua: uova sode fra ciuffetti di violette, che i bambini avevano raccolto nei boschi, un salame, le pizze di Pasqua, il vino e un agnello ancora da cucinare – ma per chi non aveva la possibilità di acquistarlo c’era la coratella, il polmone di agnello, da cuocere con la cipolla.

Non si toccavano i dolci né le uova se non era entrato il sacerdote a benedire: il cibo acquistava una sacralità oggi sconosciuta.

Il giorno di Pasqua scorreva nella tranquillità e nel riposo, in paese; così il lunedì seguente, ad eccezione di alcuni gruppi di giovani che andavano a consumare una merenda sulle rive del lago Albano.

La vera scampagnata di Pasquetta si svolgeva il martedì, giorno in cui quasi tutti gli abitanti del paese andavano ai Campi d’Annibale, ‘e Prata, in chiassose comitive. Prima, però, tutti si erano recati devotamente in chiesa a ricevere la benedizione detta papale. Veniva il Vescovo che dal pulpito, ora sparito, benediceva a mezzogiorno uomini e terre affinchè dessero buoni frutti.

Dopo pranzo, dunque, tutti alle Prata, mescolati ai Nemesi, che per l’occasione accorrevano in massa. Così si trascorreva il pomeriggio all’aperto, mangiando ancora pizze di Pasqua, salame e uova sode, fra canti e suoni di organetti, mandolini e fisarmoniche.

I ragazzi volteggiavano sulle altalene che venivano improvvisate, attaccando alcune funi ai pochi alberi che, piantati all’inizio dei Campi d’Annibale, sembravano quasi sentinelle alla vasta e ondulata superficie prativa.

Il vino scorreva e i coltelli erano a portata di mano per una presunta offesa o uno sgarbo fra Rocchigiani e Nemesi, ma in genere le liti si appianavano e le ore del pomeriggio volavano serenamente.

Con il martedì di Pasqua iniziava il periodo delle scampagnate e merende all’aperto.

Parecchie ragazze la domenica si recavano a ‘e Prata, in compagnie interamente femminili, a far giochi, spuntini e canti.