"I giochi dei bambini"

Con la sera, quando tutti erano tornati dal lavoro, giungevano le ore dei giochi spensierati. Bambini e ragazzetti, qualcuno scalzo, occupavano ogni largo delle strade e vi restavano fino a tardi, anche nel buio e nel freddo, e i familiari si sgolavano per richiamarli a casa.
Talora maschi e femmine giocavano insieme, talora in gruppi distinti. (Si cominciava a delineare la separazione dei sessi che con il trascorrere degli anni si sarebbe maggiormente accentuata: le mogli non uscivano ‘n braccinu col marito se non in occasioni di matrimoni, funerali, festività solenni come Natale, San Carlo…, e in chiesa uomini e donne restavano nettamente divisi, gli uomini a destra e le donne a sinistra).
A ‘nguattarèlla (nascondino), a gatta cèca (mosca cieca), a ‘cchiapparèlla (ad acchiapparsi), a campana ‘e zoffiéttu – la classica campana che tracciavano sui selci col gesso o nelle strade sterrate con un legnetto -, <<a guardie e fuoriusciti>>, <<alla guerra francese>>(i componenti di due squadre si acchiappavano, facevano prigionieri…) e a <<Barba Girolamo>>maschi e femmine giocavano insieme.
Barba Girolamo era una variante dell’acchiapparèlla. Un ragazzo saltellando su un piede – all’inizio doveva avvertire che iniziava la caccia: <<Esce Barba Girolamo!>>- cercava di afferrare i compagni che invece correvano e camminavano normalmente e spesso lo schernivano:
‘U zuóppu ‘ncora no’ mmè
èssolu, èssolu che mo vè.
(Lo zoppo ancora non viene
Eccolo, eccolo che ora viene).
Anche nel gioco moréssi, moréssi, che per un periodo è andato molto in voga – i giochi naturalmente si variavano e si inventavano – si trattava di acchiapparsi. Il conduttore del gioco teneva in mano un fazzoletto con un nodo; chi indovinava l’animale o la pianta, di cui egli aveva parlato senza dirne il nome, prendeva il fazzoletto e faceva l’atto di picchiare i compagni e le compagne che scappavano, gridando: <<Morèssi, Moréssi, p’a via te sfrocessi>>(che tu muoia, che tu cada rovinosamente per la via). (Moréssi, Moréssi si poteva dire anche nel gioco di Barba Girolamo).
I maschi per proprio conto giocavano co’ ‘u zurariéllu (la trottola), a saltacàpra (la cavallina), a mìtule (piastrelle; quella che fungeva da boccino si chiamava lécchiu), a lippe per la via del Tufo (si trattava di far saltare il più lontano possibile un legnetto appuntito alle estremità, battendolo con un bastone), a palline con le biglie o con i noccioli delle ciliegie, ‘e tippitìne, dicendo, chini sulla strada: <<Zibidì, zibidè, ‘n buca c’è!>>; favevano ‘a sciurarèlla, scivolando lungo i muretti – le madri li richiamavano sempre perché ci si rompevano i calzoni – e sul ghiaccio, col piano delle sedie rotte; si costruivano specie di bassi carrettini di legno, ‘e cariòle, e con queste venivano giù di gran carriera per tutte le strade i discesa, arrivando persino a Squarciarelli. (‘E cariòle avevano la forma di un trapezio allungato, alto una ventina di centimetri e lungo oltre un metro; per volante un pezzo di cordicella. I bambini ci si accoccolavano sopra, quasi sempre in due, uno davanti e uno dietro. A volte le ruote di legno – sostituite dopo il 1930 dai cuscinetti a sfera dei camion - si arroventavano, cominciavano a fumare, anche se erano state ben ingrassate con la sugna. Nell’emergenza l’unico rimedio era innaffiarle con uno zampillo di pipì: <<Frena, frena…! Pìsciai sopre...!>>
Per i più grandicelli, però, le belle discese con le cariòle terminavano spesso con una fatica; se ne servivano, per caricarle di legna, in particolare di ciòcche (pezzi di ceppaie secche) e si sudavano il ritorno in paese.
Le bambine, oltre che nei giochi già ricordati, erano occupate a fa’ a cénciari, gioco simile alle mìtule dei maschi, ma con un tocco di gentilezza in più, essendo i cénciari pezzetti di piatti su cui erano stampati fiorellini, oppure usavano i bottoni, strappati con gran disperazione delle madri ai grembiulini e alle federe; i più pregiati erano quelli di osso detti majòzze. Bottoni e bajoccó, monete da due soldi, venivano a volte lanciati contro un muro o contro le porte delle cantine: si giocava a battimuro.
Le ragazzine saltavano interminabili gare con la corda e le più piccole giocavano con le bambole, che erano rare e di stoffa. (<<…Facevano il corpicino di pezza e poi lo riempivano di segatura. Con la matita gli segnavano gli occhi e la bocca e, per capelli, i capelli dei tòtari, quelli più fini; capavano i migliori e glieli cucivano in testa. Quando ero piccola si adoperavano anche le fasce dei bambini, tutte ‘rrotolate; mettevano sopra una pezza e l’adoperavano per bambole o si arrotolava un pezzo di stoffa intorno a un sasso – Rocca era piena di sassi! – Ognuna si faceva ‘a fìa sea…>>).
Sempre tanti i girotondi, a cui partecipavano volentieri i bambini più piccoli:
Casca ‘n melu fràcicu,
casca ‘n groppa ‘e l’asinu;
l’asinu strilléa:
Ahio, ahio ‘a groppa méa!
O Maria Giulia, donde sei venuta,
alza gli occhi al cielo,
fai un salto,
fanne un altro,
fai la riverenza,
alza il cappelletto,
e… dai un bacio a chi l’ha detto.
Al castello del mio bello
c’è ‘na persona della vita mia
La più bella che ci sia
Me la voglio portà via.
Quest’ultimo girotondo richiedeva un numero dispari di partecipanti perché all’ultimo verso si formavano della coppie. Chi restava solo, doveva sostare al centro del circolo e sentirsi ripetere: <<In mezzo al nostro circolo è natu ‘n brócculu, ‘n brócculu. Brócculu che sì tu!>>(sei tu),
Le alunne delle Suore d’Ivrea conoscevano una filastrocca di argomento religioso e la cantilenavano in girotondi ordinati quando uscivano in piazza Regina Margherita per l’intervallo:
Uno, come Dio non c’è nessuno
due, il sole e la luna
tre, li Re Magi
quattro, gli Evangelisti
cinque, le piaghe del Signore
sei, i Farisei
sette, i dolori di Maria
otto, l’arca di Noè
nove, le rondinelle
dieci, i comandamenti
undici, passa la truppa colla cavalleria,
passa Gesù co’ Madre Maria.
Mamma, mamma, io voglio andare,
voglio andare a prendere la croce.
Povero Gesù, è morto sulla croce,
sulla croce, flagellato alla colonna.
Senti li pianti che fa la Madonna.
Quando staremo ‘n cielo non piangeremo più.
Ancora tipico delle femmine era fa’ a pàppari, un esercizio di abilità che consisteva nel far saltare sulle dita delle pietruzze rotonde, a volte in numero di cinque, a volte di tre; si rendevano levigate strofinandole a lungo sui selci bagnati. C’erano anche i pàppari ‘ndricchi, ma questi ultimi dovevano essere più grossi e allungati e sempre in numero di cinque. (I sassolini della ghiaia),
I pàppari, sia semplice che ‘ndricchi, avevano bisogno per saltellare sulle dita del ritmo di una numerazione o di quello di brevi filastrocche. Le bambine sedevano sui gradini di casa e, leste leste, eseguivano il consueto giocolìo:
Leru leru,
‘u carciofulu à messu lu pelu
e l’à messu de vantaggiu:
fore aprile e drento maggiu.
Zécca, zécca, se vuó zeccà
ché marìtimu no’ mmi sta,
ce cocemo ‘na pila ‘e facioli
e ce jamo a colecà.
Nelle ventose giornate di primavera i bambini costruivano ‘e commedie (gli aquiloni) con pezzetti di canna e carta velina di vari colori, mentre le sorelle aiutavano, preparando la colla con acqua e farina. E quasi regolarmente rubavano il filo di rocchetto o la matassa di cotone alle madri.
Al momento del lancio, per solito ai Campi d’Annibale, sempre nuova era l’emozione di vedere la propria commedia librarsi nell’aria. (<<Era ‘na gioia…! Tutti a strillà: “ ’U miu va più artu! Quello mio va de più pe’ aria…!” Insomma era ‘na gioia, ‘na gara, perché tutti cercavano di mandarlo più in alto possibile e delle volte, quando che si rompeva, cominciavi a piangere perché non c’erano i soldi pe’ rifallo…>>).