La Pasqua - prima parte

 

(Maria Pia)

 

La Pasqua

Le feste, quasi tutte religiose, venivano a interrompere la fatica del costante lavoro e spiccavano fra le domeniche comuni per il suono della banda che irrompeva per le strade, l’animazione delle vie principali, la tavola più ricca, gli abiti festivi, e, talvolta, processioni e fuochi artificiali. Attese con gioia, erano vissute in lieto abbandono.

La Pasqua, pur con il tempo ancora inclemente, annunciava la buona stagione: il buio, il freddo le giornate senza lavoro erano finiti.

Primo ‘e Natale né freddu né fame, doppo Natale freddu e fame”, e anche “Se pòzzo smarzà!” (Se posso superare marzo!) si diceva durante l’inverno.

Nell’imminenza della Pasqua ferveva tra le pareti domestiche un’ansia di rinnovamento. Non c’era abitazione, misera o benestante, che non venisse ripulita da cima a fondo: le donne lavorvano, lustravano, cambiavano le carte negli armadi e nei cassetti, facendo entrare per ogni dove l’aria che prometteva giorni di sole, innanzitutto sotto i letti da cui si toglievano le ultime melazza e le castagne, se per caso ne erano rimaste.

Alla fine, quando tutto era lindo, si dedicavano alla pulitura degli oggetti di rame, conche, scaldaletti, caldai che venivano strofinati con la cenere o con sale e aceto.

In genere le donne eseguivano questo lavoro fuori della porta di casa per non sporcare le cucine e, dopo aver strusciato e ristrusciato, mettevano gli oggetti lucidati a specchio ad asciugare al sole sulle scalette di casa o sui balconi, tanto che tutte le strade sembravano ornate di luccicante rossastro oro. Come al solito alcune, lavorando, cantavano. Un’atmosfera di festa percorreva le strade e gli angoli del paese come un arioso solletico.

Dopo, o contemporaneamente alle grandi pulizie, il pensiero delle donne andava alle pizze cresciute di Pasqua, che erano una preoccupazione costante in quei giorni. Il problema, vivo ancora oggi, ma di assai minor importanza, era dato dalla lunga lievitazione, che doveva essere perfetta per rendere soffice la pizza. Se veniva mazzuta, non lievitata, era quasi un disonore.

E allora nelle case fredde di una volta si prendevano tutte le accortezze possibili: si avvolgevano gli impasti in coperte di lana o si riponevano nelle vetrine, e nel ripiano di sotto si appoggiavano pentole di acqua bollente o scaldaletti pieni di brace accese, con il pericolo di bruciare pizze e vetrine.

I ragazzini, intanto, si organizzavano, andando a gruppetti dai falegnami, per avere pronte le taccatàule (le battole quaresimali). Per solito quelle dell’anno precedente erano finite nel fuoco.

Durante i giorni in cui le campane sarebbero state “legate”, i bambini, quasi orologi viventi, dovevano sventagliarsi dal sagrato della chiesa in tutte le strade del paese e, sbattendo energicamente le taccatàule e i tric-trac, gridare a seconda dell’ora:

Sona mezzugiornu!”, “Sona a predica!”, “Sona l’Avemmaria!”, “Sona n’or de notte!”.

I ragazzini si divertivano e spesso non si limitavano a gridare l’ora, ma completavano l’annuncio con delle “strofette”:

Sona mezzugiornu, taccatàula e buciu tonnu!” (buco tondo).

Sona l’avemmaria, chi sta a casa e chi p’a via!”.

Sona n’or de notte, chi no’ sta a casa pìa ‘e botte!”.

Sona n’or de notte, chi sata a casa e chi p’e ‘ròtte!” (grotte).

 

continua.....