"Una giornata di lavoro"

 

(Maria Pia)

 

A punt’e giornu, al primo chiarore del cielo, stridevano i chiavistelli delle stalle, qualche camino fumava e tutte le strade e i vicoli risuonavano di saluti: <<Ohì…, ohì compà…>>, di incitamenti ai muli, ai cavalli e agli asini che venivano fatti uscire all’aperto.

Rintoccava la campana dell’arba.

Uomini e animali scendevano dai vicoli e dalle tante stradette ancora sterrate e poi giù per il ripido Corso o per l’Ormi simili a torrenti: scarponi chiodati e zoccoli di quadrupedi battevano sul selciato con il rumore di un rotolare di pietre. Braccianti con la vanga o con la zappa su una spalla e il tascapane penzoloni, piccoli proprietari con gli attrezzi legati ai basti, andavano verso le zone più pianeggianti a lavorare la terra. I boscaioli da tempo si erano avviati; la campana dell’alba non li raggiungeva. Della loro giornata dicevano: <<…da ‘e stelle a’ stalla…>>.

La campagna circostante era un mosaico di appezzamenti; nessuna zolla di terra restava improduttiva: viti, grano, granturco, legumi, fra cui la cicerchia, ortaggi, alberi da frutto; un salice e una ginestra per vari tipi di legacci. Le viti erano tenute in gran parte a canocchia, cioè a cono, su quattro canne unite alle sommità. A volte dentro l’intreccio dei pampini nidificavano i verzellini.

Fra la campana dell’alba e quella del mezzogiorno vi era un lungo intervallo; poi verso il tramonto i suoni delle campane si rincorrevano alla distanza di un’ora circa: suonavano le ventitré ora che in certi periodi dell’anno segnavano la fine del lavoro, l’avemmaria che chiamava alla preghiera in chiesa e, quando era buio da un’ora, ‘n’or de notte. Tutti regolavano le loro faccende aspettando o seguendo i rintocchi delle campane, suonate a mano dal sacrestano: gli orologi nelle case erano poco consueti. <<Rìzzate ch’é sonata l’arba!>>, <<É ora de staccà: so’ ventitré ora>>, <<Viétte a pià ‘o pa’ de e vent’ora…>>,<<É ‘n’or de notte: ‘ndo va girenno?>>

Molte donne al suon dell’or de notte, recitavano un Pater, un’Ave e un Requiem, concludendo con una specie di giaculatoria: <<Pace ai vivi e requie ai morti, i vivi in santità e i morti in eternità. Anime Sante nun ci abbandonà>>.

Le donne, che non erano andate con i familiari in campagna, iniziavano anch’esse la loro giornata di lavoro all’alba. Oltre che pulire la casa e cucinare, avevano da attingere l’acqua alla fontana, ogni tanto andavano a raccogliere la legna nel bosco e spesso al lavatoio. Una volta alla settimana o ogni dieci giorni dovevano fare il pane, (<<Mia madre m’impastava sempre due bambolette con un po’ di zucchero; per occhi metteva due fagioli bianchi e neri, ‘e monachelle>>, 1910). E stiravano con il ferro a vapore. Ne servivano due: con uno si stirava, mentre l’altro si riscaldava sui carboni ardenti; era caldo a sufficienza quando, sputandoci sopra, la saliva scappava sfrigolando; se invece era revécinu, troppo rovente, si lasciava raffreddare. E poi molte accudivano alle tre o quattro galline, che tenevano in cantina o in cucina – alcune porte avevano in basso un piccolo sportello, ‘a buciaròla, l’ingresso delle galline.

Ogni quindici giorni circa c’era da fare ‘a cenneràta, il bucato con acqua calda e cenere e, a seconda delle stagioni, intrecciare pomidoretti da appendere e preparare sèrte di fichi e di spicchi di mele da far seccare al sole, per poi farle pendere dai travicelli delle cucine insieme ad agli, cipolle, peperoncini, mazzi di tòtari (granoturco), saccoccelle di nocciole, un pezzo di lardo. Chi aveva allevato un maiale possedeva il relativo corredo di prosciutti, salsicce e, tra i tanti prodotti, anche la vescica suina ripiena di strutto, che ricadeva dal soffitto come un bianco palloncino. Abitualmente, però, questo patrimonio si teneva al fresco in cantina. L’uva detta bomminu (buon vino) veniva invece attaccata davanti alle finestre delle camere da letto. Durava succosa fino a Natale, giorno in cui si mangiava.

Le donne, quando avevano tempo di stare sedute, nella buona stagione fuori della porta di casa e a fine agosto con un occhio al granturco steso ad asciugare al sole – tutti gli angoli solatii delle strade erano occupati da vecchie coperte o lenzuola tappezzate di granturco – lavoravano a maglia calzettoni, solette, maglie con una rustica lana di pecora che pizzicava le carni. Si aiutavano con un legnetto forato che teneva fermo il ferro da calza sotto il braccio, ‘u mazzariéllu, oppure rammendavano (<<Steo sempre a reppezzà…>>). Il rammendo era importante; gli indumenti e gli abiti dovevano durare il più a lungo possibile, i vestiti buoni decine d’anni e poi si rivoltavano restituendoli a nuova vita.

Il lavoro, pur avendo ritmi quieti, naturali, era un impegno incessante per tutti. <<Stémo tutti ‘n galera pe’ ‘n debitu>>, si dicevano a volte le donne quando s’incrociavano con le bagnarole colme di panni o il fascio di legna sulla testa; e la sera: <<Chi nn’è straccu, che se pozza straccà!>>, <<Tengo ‘na fame , ‘na sete, ‘n suònnu, ando’ me ssédo me ‘ccuccio e me ddormo>>. Ma non trovare lavoro un terzo delle famiglie era composto da braccianti – era ancora più duro, era la fame. E allora si elemosinavano le giornate e le donne chiedevano a chi aveva qualche soldo in più di andare a lavargli i panni al lavatoio: <<Te vajo a scontà ‘a piggio’…>>.