"I mestieri d'un tempo"

 

 

(Maria Pia)

 

Dopo l’esodo del primo mattino il paese conservava una composta animazione.

La macina del mulino girava quasi incessantemente nella via che ne ha conservato il nome, Via della Mola. C’era l’abitudine di portare al mulino pochi sacchi per volta; e perciò au molinaru non mancavano quasi mai clienti, che se non avevano denaro per pagare la macinatura, lasciavano l’equivalente valore in farina.

Nella stessa strada mastro Emilio, ‘u facocchiu, costruiva e riparava le ruote dei carri e qualche carretto, mentre agli OrmiMbertoe babbo, che tra i vari ferari (fabbri ferrai) era anche maniscalco, applicava i ferri agli zoccoli di muli e di cavalli, spandendo nei pressi secchi colpi metallici e puzzo di unghie bruciate. All’occorrenza era anche veterinario e curava le bestie con beveroni e impiastri ("… lo chiamavano anche di notte: “Mberto vié, ché ‘a mula sta male!”").

Nella piccola fucina di via M. S. de Rossi, Ninettu, u callararu, forgiava oggetti di rame, conche, scaldaletti, caldai e li foderava di stagno contro il verderame. I due o tre mmastari (bastai) sparsi in vari rioni, cucivano con i loro lunghi aghi ricurvi, i quadriélli, basti e selle per tutti i paesani e i parecchi bottai s’affaccendavano alle botti e a tutti i recipienti tipici delle cantine. (Ve n’erano moltissime; prima della vendemmia non c’era strada che non fosse occupata da qualche grossa botte, da caratelli e bigonci che venivano ripuliti con una scopa di ruschi, rametti di pungitopo, e poi sciacquati. Quando erano asciutti i proprietari picchiavano a lungo sui cerchi di ferro per riassestare le doghe. Quel martellìo generale durava una quindicina di giorni).

I barbieri, che non disdegnavano di raccogliere sfaccendati e chiacchiere, tagliavano i capelli molto corti, così il taglio durava di più e i pidocchi avevano meno spazio, e per rasare la barba agli anziani gonfiavano le loro guance con un uovo di legno, che passava di bocca in bocca.

Fuori dalla porta di casa, nel larghetto di via della Cava, Checchino, detto Farina, intrecciava i valli, specie di cesti a due manici che servivano per raccogliere il carbone dalle carbonaie. Usava ‘e bastarde, polloni di castagno di quattro-cinque anni, che divideva in strisce sottili. Se gliele ordinavano, preparava anche ‘e bottajerìe, coni alti poco più di un metro a cui venivano applicati vari mortaretti, che si sgranavano vivacemente uno dopo l’altro sul sagrato della chiesa in occasioni di festività o di matrimoni.

Su tutti si levava la voce della giornalaia Natoja (Anatolia) che passava strillando i titoli dei giornali, ma con scarsi acquirenti. E a tratti le faceva eco l’uomo della riffa, Ernestu ‘e braccettu, chiamato così per via di un braccio monco, che preceduto o seguito da un grosso tacchino o con una collana di tordi al braccio sano – i premi della lotteria – gridava: "Chi vò mette ‘a riffaaa? Chi vò giocà ‘a riffaaa?".

E intanto che si compivano tutti questi gesti, le due vetture della funicolare ad acqua, a intervalli scendevano e salivano, incrociandosi, dopo che i manovratori avevano riempito i cassoni per bilanciare il peso dei passeggeri.

Durante la settimana arrivavano venditori e lavoratori ambulanti.

In autunno e in inverno ecco la ricottàra a piedi da Velletri, con le sue ciocie, l’abbondante guarnellone (gonna lunga arricciata), una tavoletta colma di canestrini di ricotte in bilico sulla testa, una bilancia e un fazzolettone annodato a un braccio: "Ricottaaa.., fresca ‘a ricottaaa…". E porgeva il triangolo di ricotta su foglie di cui aveva fatto incetta nei boschi durante il percorso, dette proprio fòje o fronne ‘e ricotta. Era raro che qualcuno comprasse l’intera frocèlla (il canestrino). I ragazzini pretendevano ‘a ggiunta, un pezzettino in più. "A ricottà m’à’ pesatu fiaccu!". (A ‘ggiunta c’era anche del pane, un morso che i bambini mangiavano per la strada di casa).

U stracciarolu (lo staccivendolo) e ‘urotinu (l’arrotino) facevano sentire le loro grida e le donne davano all’uno cenci ormai inutilizzabili, ricevendo in cambio, dopo varie contrattazioni, qualche stoviglia, mentre all’altro portavano ronche, coltelli, forbici da arrotare.

U callararu, quello ambulante – era quasi sempre anche ombrellaio – prendeva posto in uno spiazzo, accendeva un focherello di carbone per fondere lo stagno e, davanti agli occhi del consueto gruppo di bimbetti che seguivano le sue mosse, tappava con grigiastre gocce i buchi degli oggetti di rame; quelli di coccio li riattaccava invece con mastice e fili metallici.

Con il freddo giungevano gli spazzacamini, sempre in coppia, con le lunghe corde arrotolate ad una spalla, una scopa di pungitopo, il viso, le mani e i panni sporchi di fuliggine. I bambini al loro comparire s’impaurivano e scappavano dentro agli usci. ("”Se n’te stì bbuònu, chiamo ui spazzacamminu”, dicéanu ‘e madri".

A mezzogiorno, contemporaneamente alla campana della chiesa, risuonava squillante la campanella dell’Osservatorio Geodinamico. Il custode aveva il compito di osservare con un cannocchiale la palla che scendeva dall’asta della cupola di Sant’Ignazio a Roma e di suonare all’istante. (Se la visibilità era scarsa, era attento al colpo di cannone del Gianicolo. Era stato calcolato che la detonazione impiegava due minuti per raggiungere Rocca.

Il suono saltellante della campanella giungeva fino alle vigne circostanti. Era il momento della pausa dal lavoro e del pasto di mezzogiorno: pane con frittata di patate, con cipollata e qualche pezzetto di baccalà, con una saràga (aringa), con due o tre pomodoretti o insaporito co’ ‘a panontella. Da bere per gli uomini il vino che generalmente non mancava e veniva portato in campagna con le copelle di legno (specie di piccole botticelle); per le donne a giornata l’acquatu.