Le streghe dei Castelli Romani secondo Maria Pia Santangeli

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Pensando a  Rocca di Papa e a Rocca Priora  nel passato quasi completamente isolati, immersi nel verde dei castagni,   viene spontaneo immaginare che in questi due paesi siano nate  particolari storie e leggende legate ai boschi. Niente di tutto questo invece. L'unico essere immaginario  dei Castelli che abbia a che fare con il bosco spunta ad Albano, paese soprattutto di vigne e di orti,  ed  è  solo un folletto, detto  lénghelo o lengoletto del bosco per distinguerlo da quelli delle case e delle vigne detti semplicemente lengoletti. Folletto cattivo, arcigno quello del bosco di Albano perché confonde i sentieri agli esseri umani, proprio come quelli delle Alpi e spaventa gli animali che ci vivono. Quando il bosco è cupo e  silenzioso, gli uccelli non volano e non cantano, né s'incontrano animali, è segno che quello è il territorio di un lénghelo. Diverso il carattere dei lengoletti delle case e delle vigne: dispettosi i primi, ladri i secondi.

Il ruolo principale nell'immaginario popolare dei Castelli spetta tutto alle streghe. Sono loro le protagoniste dei racconti  tipici del focolare, quelli che facevano rabbrividire di gioiosa paura soprattutto i bambini  prima dell' avvento della TV - ma anche gli adulti ascoltavano volentieri. Streghe che potrei definire paesane, perché  non s'incontravano nei boschi, non operavano malefici tra gli alberi,  ma dentro le mura, nelle case e soprattutto nelle stalle.   Nelle preferenze dell'immaginario popolare  venivano poi i racconti delle  benefiche anime del purgatorio dette Anime Sante, di seguito i lupi mannari, i folletti – solo nei paesi più pianeggianti dei Colli Albani –, gli spiriti  e infine i briganti.

Ma procediamo per ordine ed entriamo nei particolari: le streghe,stree a Rocca di Papa, erano sicuramente malvagie: prendevano di mira soprattutto i bambini, gli esseri più indifesi, che potevano storpiare o indebolire fino alla morte. Per questo nessuna donna lasciava durante la notte i panni stesi dei propri figli all'aperto (panni stisi a Colonna): potevano servire alle streghe per qualche maleficio. Inoltre potevano far nascere un bambino con qualche malformazione  se avevano toccato la  madre incinta, che poteva  difendere il nascituro solo mangiando un po' di ruta (ruta graveolens, pianta considerata magica in tutta Italia). 

Quasi impossibile riconoscere le donne streghe: potevano essere parenti, vicine di casa, donne che di giorno si comportavano come tutte le altre del paese, che  andavano a lavare i panni alla fontana, raccoglievano la legna, lavoravano in campagna e cantavano. Ma con l'oscurità tutto cambiava: entravano nelle case e nelle stalle. Come facessero nessuno sa: qualcuno dice che entrassero dal buco della serratura - come fanno le surbiles sarde e e alcune  masche piemontesi -, altri sospettavano  che solo per magia  riuscissero ad aprire le serrature delle case e i robusti chiavacci di ferro delle stalle. Certo è che potevano trasformarsi in gatti e i gatti entravano facilmente nelle case attraverso le loro gattaròle.

 Dalle streghe bisognava difendersi dunque. Quasi generale la fiducia nel potere   della scopa di saggina posta al contrario dietro la porta.

Lo ricorda anche Giuseppe Gioachino Belli nell'ultima terzina del sonetto “ La strega”:

 

Tutte le sere io e la maestra

ar meno pe ssarvà li fiji nostri

je mettemo la scopa a la finestra.

 

 A cui altri aggiungevano mucchietti di sale sulla soglia  di casa e sui davanzali delle finestre e per di più anche ai quattro angoli dalle stanze. Sia il sale che la scopa avrebbero dovuto obbligare la strega a fermarsi a contare: le tante festuche della scopa  e i granelli di sale erano, a quanto pare, un richiamo irresistibile  per la strega:  davanti alla scopa si fermava e poi  non poteva fare a meno di contare e  di contare tutta la notte fino allo schiarirsi del cielo sopra i tetti. Così  arrivava  l' alba. La luminosità del giorno - è risaputo -  annullava ogni  potere malefico: la strega   doveva  tornare indietro  senza aver compiuto  la crudele azione che  si era proposta. (le conte delle streghe sono comuni a molte regioni italiane, anche se talvolta  con oggetti diversi).

Nelle stalle che abitualmente si chiudevano dall'esterno era difficile appoggiare la scopa. Ci si affidava allora all'immagine di Sant'Antonio, patrono degli animali, rinforzata da un grosso ferro di cavallo.

Eppure, nonostante tutte le precauzioni, spesso nelle stalle si trovavano i cavalli sudati, stanchissimi come se avessero corso durante la notte, a volte  con la coda e la criniera intrecciate in minuscole inestricabili trecce. Come  succede  in Garfagnana per opera dei folletti del luogo, i  vari linchetti e baffardelli ,  e come già nel '600 ha scritto Shakespeare in Romeo e Giulietta   a causa dei dispetti di Mab, la minuscola levatrice delle fate. Anche lei si divertiva a far nodi e trecce alle code dei cavalli.

Il padrone dell'animale, a trovare il cavallo sudato, si preoccupava, sapeva  che era  sicuramente stato cavalcato dalle streghe e che presto sarebbe deperito e forse pure morto. Serviva un atto di  risoluto coraggio, senza perdita di tempo. L'uomo doveva  nascondersi nella stalla per sorprendere la strega e poi afferrarla per i capelli. A  questo punto i gesti e le parole erano codificate da un lontano passato e bisognava rispettarle: la strega  nel sentirsi stretta per i capelli avrebbe certamente chiesto all'uomo “ So' crini o zurli?” (la parola zurli l'ho trovata solo nelle storie di Rocca di Papa, altrove si dice capelli). L' uomo doveva rispondere “crini”. In tal modo la strega era  sottomessa e sempre  prometteva la salvezza per sette generazioni a patto che l' uomo non svelasse a nessuno il suo segreto. Prega la strega a Rocca di Papa ”Nun me revelà” e a Genzano ”Non m'appalesà”.

La storia che segue è esemplare.  Mi è stato raccontata a Rocca di Papa circa vent'anni fa. Di tutti i racconti che ho ascoltato  nei Castelli è il più articolato e ricco di particolari e nel dialogo fra l' uomo e la strega acquista in parte il ritmo di una fiaba con la ripetizione del numero sette, uno dei numeri rituali tipici delle fiabe di magia e dei racconti di tradizioni popolari in genere.

Ecco la storia di Checchino.

Un uomo possedeva una bella cavalla. Una mattina, prima dell’alba come al solito, entrò nella stalla e si accinse a mettere il basto all’animale, ma subito si accorse che il pelo della cavalla era bagnato. La guardò meglio con il lume alzato: rivoli di sudore scorrevano sui fianchi della bestia come se fosse appena tornata da una lunga corsa. L’uomo le mise sopra una copertaccia e la lasciò nella stalla con l’animo inquieto, agitato di preoccupazioni.

La mattina dopo gli si presentò la stessa scena: la cavalla era di nuovo sudata e stanca. E pe’ ‘a miseria ècco quadunu sta (per la miseria qui c’è qualcuno), pensò. Gli voglio fare le poste.

La sera stessa dunque, al primo buio, l’uomo entrò di soppiatto nella stalla e si nascose in un angolo, coprendosi con il fieno, la ronca stretta in pugno.

Non dovette attendere a lungo: ad un tratto, nel silenzio, la porta cigolò. Attraverso le festuche del fieno, l’uomo vide entrare una giovane donna – gli parve di riconoscerla – con una pentolina stretta tra le mani. La donna si avvicinò silenziosamente alla cavalla e poi, intingendo una mano nel piccolo recipiente, cominciò a bagnarla delicatamente sui fianchi. Intanto con voce piana, quasi dolce diceva: “Eh, povera bestia mia… mi dispiace, ma io so’ comannata, so’ comannata dalla capo strega. Lo devo fa’…”. E continuava a bagnare il collo e il dorso dell’animale. “Bella cavallina mia…”.

L’uomo scorgeva a mala pena i gesti della donna strega al chiarore del cielo che proveniva dalla porta semiaperta, ma ne udiva distintamente le parole.

Gonfio di rabbia, stava per saltarle addosso quando la donna in un attimo si issò sulla cavallina e, gridando a voce alta appassionata: “Pe’ passo e pe’ malavento portame via da ‘sto tormento!”, sparì dalla porta in un risucchio di vento.

Ora non c’era che da aspettare il suo ritorno. L’uomo non riuscì a dormire, aspettò, aspettò per un tempo che gli sembrò interminabile, diviso fra la rabbia e la paura. Finalmente la donna e la cavalla rientrarono nello stesso modo con cui erano uscite, in un turbine d’aria. La cavalla era madida di sudore. A quella vista l’uomo saltò su di scatto, brandendo la ronca, e afferrò la donna per un braccio: “Te possino ‘mmazzatte! Ah, sei tu che mi rovini la bestia. Io t’ammazzo!”.

“No, no Checchino” lo chiamò per nome “io so’ comannata. La capo strega mi dice così e così e io bisogna che vada…”.

Checchino non rispondeva, preso com’era dalla furia. “No mme revelà…continuò la donna: ti do sette paia di scarpe, sette paia di calzoni, sette paia di…”.

“No, non mi sta bene”, la interruppe Checchino deciso.

“Allora non toccherò più la cavalla, ma tu, no mme revelà. Ti prometto che sarai salvo per sette generazioni, con tutte le famiglie dei tuoi nipoti e pronipoti”.

A quel punto Checchino rispose: “Va bene”. E lasciò la presa. La donna si voltò e uscì in fretta con brevi passi silenziosi, senza aggiungere altre parole.

 

Quando la strega si trasforma in gatto, il racconto varia. Alla prossima volta.