"Un'americana a Rocca di Papa: Mary Crawford - 3"

(Piazza Margherita nel 1891)

 

(Presentazione di Carlo, il traduttore del testo)

 

Una notte d’estate, il 29 giugno, tutta la popolazione rimaneva fuori dell’uscio per guardare l’illuminazione di S. Pietro, quasi più bella, da quella distanza, di come l’avevo vista fino allora dalla torre di Villa Negroni. Quando scendeva rapida la notte meridionale, stendendo un polveroso velo purpureo sulla vasta Campagna, il profilo della cupola si elevava venti miglia lontano come un globo di stelle da un cielo nuvoloso, con la grande croce chiara ed argentea. A quella distanza non potevamo sentire il cannone segnare il cambio, e tutto avveniva in silenzio, come se un pianeta dorato fosse caduto dal cielo a infiammare le stelle. E io mi addormentavo guardando la singolare bellezza di tutto questo dalle finestre di Casa Botti.

 

Il posto, allora, era quasi sconosciuto al mondo esterno e soltanto un’altra famiglia di Roma lo aveva scelto per la villeggiatura. L’aria frizzante ed ascetica del posto si adattava bene a quel vecchio artista santo di Overbeck [Friedrich, nato a Lubecca nel1789 e morto a Roma nel 1869, fu uno dei fondatori del movimento dei “Nazareni” e abitò nella casa dove oggi sono le “Suore Tedesche”, le Carmelitane di S. Giuseppe, ndt])  ed egli, con la figlia e la nipote, aveva affittato una casetta al limite settentrionale del paese. Vedevamo spesso Assunta Hoffmann, una ragazza seria e dolce, e suo nonno veniva spesso a parlare con noi. Era un vecchio pallido e gentile, con un modo di fare di una semplicità fanciullesca, una personalità così candida e trasparente che  sembrava quasi non appartenere al rozzo genere umano. La sua intensa serietà, pur intrigandomi, mi attraeva. Era così palesemente felice, eppure attonito, come se vedesse sempre intorno a sé una meravigliosa, grave compagnia di angeli e santi che a noi era precluso scorgere. Possedevo molte incisioni dei suoi quadri, perché erano sempre in vendita da Spithover’s il libraio cattolico di Piazza di Spagna per le cui stampe e fotografie, sempre attraenti, spendevamo quasi tutto il nostro argent-de-poche; ma non avevo mai visto il solitario artista finché non lo incontrammo a Rocca di Papa. A Roma non frequentava nessuno, ma lassù ci fece entrare nelle sue grazie, sentendosi dispiaciuto, immagino, per le piccole selvagge protestanti che tanto amavano i suoi quadri.  Sapevo che questi non erano dell’arte più eccelsa, non erano abbastanza umani per esserlo, ma la loro purezza e amabilità era così ristoratrice per una piccola anima che spesso trovava il mondo troppo grande, complicato e sontuoso  per considerarlo nel complesso un posto riposante ed era sempre alla costante ricerca di ciò che le era sempre stato negato: una solida base di fede su cui crescere e costruire qualcosa.  Mi sembrava molto strano che i miei cari genitori approvassero in maniera tanto entusiastica ogni cosa bella dell’arte cattolica, al punto che qualsiasi leggenda sulla Madonna e sui santi faceva parte del nostro linguaggio domestico, ma che a dispetto di tutto questo il cuore e l’ispirazione di tutto ciò, la religione stessa, dovesse essere qualcosa di condannato, con cui non avere nulla a che fare. Invidiavo con tutto il cuore una delle mie amiche d’infanzia che, qualche anno più tardi, sarebbe diventata allieva del Sacro Cuore a Roma. Per lei non c’erano dilemmi intriganti; nessun problema di Giusto o Sbagliato a combattersi confusamente nel suo animo. Tutto era spiegato, regolato, benedetto; poteva porre qualsiasi domanda le passasse per la mente alle gentili, sagge suore che sapevano benissimo ciò che provano le ragazze di fronte alle cose e non erano mai abbastanza occupate per non ascoltarne le confidenze. La mia vita era più ricca della sua in mille modi, eppure c’erano dei momenti in cui avrei dato tutto - il colore, l’interesse, i libri di storia, l’arte e la storia stessa - pur di trovarmi al suo posto, al sicuro.

L’assenza di un insegnamento sufficientemente definito sulla materia più alta di tutte, in quegli anni verdi, fu per me una grande disgrazia, ma non derivò assolutamente da una negligenza determinata da parte di mia madre. Ella era così divinamente buona di natura, così incapace di un qualsiasi pensiero volgare o cattivo, che il male, semplicemente, per lei non esisteva, fino a che, parecchi anni dopo, col mutare delle circostanze, la sua convinzione non fu messa a dura prova. La religione senza forma che ella praticava non aveva nulla a che fare con la sua educazione spirituale: le era stata concessa come una grazia infusa, e in base ad essa regolava ogni pensiero e ogni azione della sua vita.

La sua cristallina chiarezza di carattere e la sua bontà d’animo, così come la sua intensa umiltà, la spingevano a ritenere che fossero tutti come lei e le mie pene d’infanzia furono causate da questo errore. Per lei, fino a prova contraria, tutti erano buoni; tutti credevano in Dio ed erano Suoi figli diletti; Anglicani o Non-conformisti che fossero, non importava chi avessimo intorno, almeno fino a quando nessuno avesse provato a spingerci al Cattolicesimo che, per la sua gente, era stato anatema così a lungo che perfino il suo animo gentile era stato impregnato del loro terrore irragionevole. Ella  era, come mi disse durante i suoi ultimi giorni una grande autorità della chiesa cattolica, “una santa naturale”. E aggiunse: “ ella appartiene all’Anima della Chiesa, come tutti i sinceri cristiani che, per una ragione o per l’altra, non hanno compreso la necessità di appartenere al Corpo della Chiesa. La prima educazione modella le coscienze per la vita intera. Stai bene attenta  a non disturbare adesso tua madre con tentativi di persuasione o con dubbi! Le faresti soltanto del male. Ella andrà diritta in Cielo, quando morirà”.  

La mia piccola cara governante, Helen Salter, era un’altra creatura nata buona, ma, sebbene io non l’abbia saputo fino a molti anni dopo, le sue convinzioni al tempo di cui sto scrivendo stavano subendo un grande cambiamento e quando, nel 1862, tornò in America, entrò in un ordine religioso insieme alla sorella più giovane che si prendeva cura di alcuni nostri amichetti, rampolli di una famiglia sudista rovinata dalla Guerra Civile. La sistemazione di Rocca di Papa ci fu così congeniale che essi la stagione successiva si unirono a noi e furono un’aggiunta benvenuta alla nostra tribù.  Dovevamo essere in condizioni fisiche e di spirito straordinariamente buone, giacché un avvenimento agghiacciante nella nostra casa non ci depresse minimamente, per quanto mostri quanto enormemente abbia progredito, da allora, la conoscenza dell’igiene. 

 

Casa Botti era un edificio molto grande e noi occupavamo soltanto il secondo e il terzo piano. Al primo viveva e morì un certo tal cardinale di cui non ricordo il nome ma che – se non era proprio sordo come una campana - doveva essere una persona di una pazienza celeste, dato che eravamo in otto, tutte le ore del giorno, a correre sopra alla sua testa e su e giù per le scale. Una volta mio fratello Marion cadde dal letto nel pieno della notte con un tonfo che ci fece balzare urlanti dalle nostre stanze  soltanto per trovare il florido ragazzino che dormiva della grossa sul pavimento. Beh, il povero, buon cardinale morì e per qualche ragione che nessuno mi spiegò,  non fu possibile trasportare altrove il suo corpo. Sul pianerottolo del primo piano c’era una cappella chiusa da una cancellata di ferro battuto, dalla quale potevamo vedere l’altare con le alte candele e un quadro nascosto da una tenda. Dopo la morte del cardinale vi potemmo vedere qualcos’altro: una grande bara nera appena dietro alle sbarre. Lì giacque per cinque lunghe settimane della calda estate italiana. Non era stata adottata nessuna precauzione igienica e la bara era di semplice legno. L’orrore della corruzione montò sempre più insopportabile, ma nessuno avanzò proteste di alcun tipo. Ci fu detto di tenere il fazzoletto sulla bocca quando passavamo lì davanti, ma questo fu tutto. E ci abituammo talmente a quell’atmosfera micidiale che quando si fece particolarmente terribile ci mettemmo a prendere in giro gli altri bambini dicendo loro che si sentiva il cardinale camminare al piano di sopra. Le nostre due governanti dovevano avere una tempra eccezionale. Erano da sole a prendersi cura di due nidiate, mentre un’epidemia di vaiolo infuriava nel paese. L’unica strada scendeva dalla piazza fin davanti alla porta di casa nostra e ogni volta che uscivamo vedevamo una lunga fila di drappi gialli sventolare sulla porta delle case dove giacevano le vittime. Naturalmente quelli che morivano venivano sepolti nel camposanto della chiesa sotto le nostre finestre e per quanto non uscissimo per strada, il nostro cibo veniva tutto da lì, per non parlare, poi, di “Oh, Stè!”, dei suoi somarelli e dei suoi zoccoli infangati. Nessuno sembrava per nulla disturbato. Non eravamo neanche vaccinati di recente. L’epidemia finì, il cardinale fu finalmente rimosso e, quando l’estate terminò, otto ragazzini furono riportati a Roma in ottima forma.

 

Due o tre settimane prima di questo trasloco, era tornata da noi nostra madre, sposata al signor  Luther Terry. Egli era un vecchio amico di famiglia, un artista del New England che aveva passato a Roma la maggior parte della sua vita. Naturalmente questo evento fu seguito da decisi cambiamenti. Per ovvie ragioni a mia madre non importava tornare a Villa Negroni e, mentre si cercava un’altra casa adatta, andammo a Villa Dies (che oggi è un albergo), vicino al Pincio e nel cuore del quartiere internazionale. Per la villa mia madre prese delle persone di servizio: due artistiche donne inglesi, che capirono bene i nostri sentimenti per la nuova casa e ci facevano sentire benvenuti quando tornavamo – come ogni giorno – dal nostro triste peregrinare nel giardino della nostra vecchia, indimenticabile abitazione. Non passò molto tempo che – quale seguace del Santo Padre – il principe Massimo venne espropriato, lo storico edificio distrutto e gli incomparabili giardini spazzati via per far posto a strade squallide e orribili, oggi abitate dai ceti più bassi di tutta la già miserevole città.