"Theodore Wibaux – Zuavo pontificio parla di Rocca di Papa"

 

(Presentazione di Carlo)

 

 

Edito a Lille nel 1885 a cura del padre C. du Coetlosquet, S. J. In occasione del 25° anniversario del Reggimento degli Zuavi Pontifici: 1860 – 1885

 

Dal Capitolo XIV – anno 1868

Per romperci a ogni fatica, il nostro bravo tenente si abbandona a tutti i capricci dell’immaginazione. Ieri gli venne la fantasia di farci alzare alle due del mattino e ci fece rientrare in caserma solo alle undici meno un quarto, nel momento della calura tropicale. Pensate che gli uomini si portavano la casa sulle spalle, con tutti i loro tesori: cartucce, spazzole, tascapane … Povere reclute! Faceva compassione vederli con la lingua di fuori. Stamattina stessa storia: noi sergenti, dispensati dallo zaino, invece che con le spalle contribuiamo con la voce, cantando a squarciagola tutto il nostro repertorio di canzoni. Niente di meglio per sostenere la marcia. Uno dei motivi preferiti è la canzone dei due gendarmi; la canto a pieni polmoni, da lasciarci metà della voce.

Ma rispetto alle manovre parziali si fa di meglio; si pianta un campo non lontano da Roma dove un soldato può vivere, giorno e notte, la vita della campagna. Il posto prescelto, un tempo, aveva visto le tende del generale cartaginese vincitore di Roma e ne aveva conservato il nome: Campo d’Annibale: un vasto pianoro, un vecchio cratere estinto di due leghe di circonferenza incassato fra colline verdeggianti e dominato dal villaggio di Rocca di Papa.

Si rizzano le tende; i poveri alberi della foresta cadono nel fiore della gioventù, i rami servono da appoggio, le cortecce da decorazione. I Canadesi soprattutto, da veri uomini delle foreste, si distinguono. Gli ufficiali maneggiano l’ascia essi stessi e si costruiscono dei gurbì [una specie di capanne arabe, ndt] che rivaleggiano in eleganza fra di loro.

Lassù le giornate si assomigliano tutte senza risultare noiose; come trovare monotona la vita nel cuore di una bella natura, tutta bagnata di sole, tutta pervasa dagli echi di un leale cameratismo?

Come mi piace questa vita di famiglia! La mattina, alle quattro e mezza, quando le trombe di tutte le compagnie ripetono gioiosamente la sveglia, generalmente così male accolta, il cuore si illumina con i primi raggi del sole. Le manovre stesse – chi lo crederebbe? – hanno dei riflessi poetici. Niente di più bello che vedere i nostri grandi battaglioni andare su e giù per la piana obbedendo ai diversi ordini; i fucili brillano, la cavalleria galoppa, l’artiglieria trascina rumorosamente i pesanti cannoni. Il reggimento dispiega orgogliosamente le sue ventinove compagnie. Il nostro comandante in capo, il tenente colonnello de Charette, al galoppo sul suo cavallo, sprona ovunque la truppa.

Di sera la luna viene ad ascoltare i nostri ritornelli: quando la luce è scomparsa si accendono i falò e a gruppi, in lingue diverse, si cantano i motivi della patria.

La notte è piuttosto fresca, bisogna ammetterlo; è impossibile stare comodi con i gomiti e, dato che di natura sono un po’ agitato, nel sonno distribuisco parecchi calcioni ai miei poveri vicini; è sempre un po’ comico.

Una cosa mi manca, qui: la messa di tutte le mattine; ne sento davvero la mancanza. La domenica abbiamo la messa al campo, a cui assistono tutti i corpi d’armata; è un’emozione che surclassa tutte le altre, ma non mi basta. Ho bisogno di un altare e di un tabernacolo… Termino la mia lettera, ma non più sotto l’ombra fresca dove mi ero sistemato. Cambio di scena totale: grossi nembi si sono addensati sul campo, il vento soffia con violenza, siamo letteralmente in messo alle nuvole. Ho cercato riparo sotto la tenda, ma attraverso la tela qualche goccia indiscreta trova un passaggio per rinfrescarmi. Questo ticchettare continuo della pioggia mi fa pensare alla dolcezza della casa paterna. Pieno di gioia, penso meno a ciò che ho lasciato.

Campo d’Annibale, 10 agosto. – Potrò mai, miei cari genitori, raccontarvi la nostra bella giornata del 10 agosto? Verso le otto eravamo già tutti in armi. Subito tuonò il cannone; il suo rimbombo, prolungato di eco in eco, ripeteva ai monti l’arrivo del Santo Padre. In mezzo al campo era stato eretto un altare tutto coperto di drappi rossi. Pio IX cominciò la santa Messa. Che scena maestosa! Dio che si immola nelle mani del suo Pontefice supremo; le trombe e i tamburi che scandiscono il tempo; la natura che partecipa alla festa rivestendosi di tutta la propria magnificenza; in lontananza la vasta campagna, Roma e il mare scintillante; il vecchio Monte Albano, con il suo Olimpo, testimone di una simile rigenerazione. Infine, prosternato davanti a una duplice benedizione, il nostro reggimento con la sua bandiera e una foresta di baionette! Il Santo Padre fece una breve colazione in una baracca di legno molto ben decorata. Intanto i Cacciatori italiani cantavano un inno in suo onore; poi ci benedisse ancora una volta e ammise tutti gli ufficiali al bacio del piede. Molte famiglie romane erano accorse a godersi la festa. Pio IX, quindi, cominciò la visita del campo scortato dallo Stato Maggiore. C’erano degli archi di trionfo di frasche con delle scritte di circostanza; tra gli altri [allestimenti], c’era un vascello con dei musi di pescecane sormontato dall’arcobaleno e dalla statua della Vergine con il suo titolo di Immacolata Concezione.

Niente di più paterno di questa visita! Era il patriarca venerabile che passeggiava in mezzo alla sua numerosa famiglia, dimentico per un istante delle sue preoccupazioni. L’ospedale fu oggetto della sua sollecitudine; le suore di San Vincenzo di Paola e gli elemosinieri gli fecero gli onori; peccato non essere stato malato, quel giorno! Infine, cosa sorprendente per un vegliardo della sua età, discese a piedi tutto il villaggio di Rocca di Papa e Dio solo sa se la costa è ripida e le strade sono sassose e sdrucciolevoli! Presi dagli eccessi dell’entusiasmo emettevamo grida capaci di stordire i sordi. E lui si limitava a ridere mettendosi il dito sull’orecchio. Altre volte ci faceva tacere e si rivolgeva scherzando alle donne anziane; riceveva suppliche, distribuiva elemosine. Invano, con le buone o con le cattive, i bravi gendarmi cercavano di contenerci. Lo pressavamo da vicino e quando gli facevano notare la polvere che i nostri piedi sollevavano, pio IX diceva: “lasciateli fare, non è niente”. Dove trovare un amore simile, da parte di un monarca e da parte dei suoi sudditi? 

Ieri, 20 agosto, abbiamo giocato ai soldati come ragazzini. La “piccola guerra” è una cosa interessante: abbiamo messo Albano sotto assedio, in mezzo ai curiosi accorsi per godersi lo spettacolo. Di buon mattino abbiamo lasciato il campo e i diversi battaglioni si sono diretti in tutte le direzioni verso la sfortunata città. Prima sono state conquistate d’assalto Castel Gandolfo, Ariccia e parecchie altre posizioni elevate. Il cannone tuonava furiosamente al di sopra del lago. Abbiamo attraversato da vincitori, a fronte alta, le vie più elevate di Castel Gandolfo, poi ci siamo dispiegati in posizione di tiro. La sparatoria fu nutrita; c’era un fracasso infernale. Fortunatamente, in mezzo a tutto quel frastuono, non si dovevano udire le grida laceranti dei ferirti. Per farla breve, dopo una mezz’ora di resistenza caparbia, la città si arrese o, piuttosto, noi entrammo all’ora stabilita. Sarebbe bello se tutte le vittorie costassero così poco in termini di lacrime e sangue! Da ospiti premurosi, gli Albanesi avevano riempito di viveri le trattorie per i vincitori e, dopo i colpi di fucile… ci furono i colpi di forchetta.