"Un'americana a Rocca di Papa: Mary Crawford - 1"

 

 

(Presentazione di Carlo, il traduttore del testo)

 

…Dalle finestre a mezzogiorno di villa Negroni avevo sempre guardato con curiosità a un paesello lontano, aggrappato alla roccia oltre i piccoli gruppi di case dei Colli Albani. Dietro ad esso c’era come una terrazza nei monti su cui il sole – tuffandosi in mare a occidente – stendeva un tappeto dorato. Ancora più indietro - e più a destra da dove guardavo - stava Monte Cavo, il picco più alto della catena albana, con i fianchi che formavano come una sorta di massa color verde scuro, col profilo delicatamente digradante e con il lungo e dolce pendio che caratterizza sempre un antico cratere. In una delle disastrose estati della mia infanzia, trascorsa a Genzano, noi piccoli non eravamo ammessi alle escursioni dei grandi e il mio villaggio incantato, Rocca di Papa, mi sembrava più lontano che mai. Ma nel 1861 sarebbe diventato realtà, insieme a molte altre cose inattese.

Quell’anno è rimasto segnato nella mia memoria: la guerra civile in America; “Rovine di Roma antica” di Macaulay; il senso glorioso di libertà quando finalmente fui tolta dalla nursery per essere affidata alla tata che ho sempre adorato; la morte di Cavour, la nuova amicizia con mia sorella maggiore - fino ad allora inavvicinabile - e le seconde nozze di mia madre.

 

La guerra ci toccò in vari modi. I miei, naturalmente, erano ardenti Nordisti e furono terribilmente depressi dalle vittorie iniziali dei Confederati. Il denaro “costava” il doppio del suo valore; il cambio era ad un livello tale che mia madre doveva pagare 200 dollari per ogni 100 che riceveva in contanti: non dimenticherò mai la mia sorpresa nello scoprire che il denaro potesse costare denaro. Bisognava tagliare le spese, ma un risvolto delizioso di questo inconveniente fu che, invece di intraprendere un lungo viaggio al nord per evitare la canicola estiva, fummo mandati tutti su a Rocca di Papa, dove per noi era stato affittato un appartamento nel grande edificio sulla piazza: casa Botti.

 

Casa Botti aveva un grande giardino, che dal cancello in basso scendeva giù per la collina in terrazzamenti irregolari e terminava in una fitta macchia di castagni. Allo stesso livello della casa c’erano la chiesa del paese e il cimitero, dove in una luminosa mattina ebbi la mia prima visione della morte. Arrivarono due contadini portando ciò che mi parve una grossa bambola di cera su un cuscino ornato di fiocchetti rosa. Ma sulle guance la bambola non aveva nulla di roseo e quando uscirono fuori il prete e un sacrestano con libro e paramenti, allora compresi. La “cosa” sul cuscino era un bambino morto. La chiesa aveva un pavimento di grandi pietre piatte su cui erano incisi dei numeri e una di queste era stata sollevata. Il sacerdote lesse le preghiere e spruzzò l’acqua santa. Poi, dopo che il piccolo corpo fu calato nella fossa e la pietra rimessa a posto, la donna che portava il cuscino se lo mise sotto il braccio e se ne andò insieme al suo compagno: il funerale era finito. Io scappai  via nel bosco di castagni per cercare di dimenticare quella scena. Il primo sguardo sulla morte è davvero terrificante, quando si hanno dieci o undici anni.

 

Ma, a dispetto della stretta vicinanza col camposanto [il cimitero era adiacente al convento “dei Frati”, dove oggi sono i giardinetti del monumento ai caduti; ndt], Casa Botti era un posto allegro e i mesi che ci passai furono fra i più felici della mia vita, nonostante la mia cara mamma non fosse con noi. Negli ultimi tempi la sua salute non era stata molto soddisfacente e così era andata a Ems per curarsi, lasciandoci con Helen Salter, una cara e brillante ragazza di Boston che era venuta con noi dall’America tre anni prima, una di quelle governanti che molti genitori ansiosi non sembrano più in grado di procurarsi, in questi tempi di attestati e diplomi. Era molto ben istruita e ci educò a lungo con la sua simpatia, con l’immaginazione ed un vivo interesse per qualsiasi cosa la circondasse. Non era affatto intimorita di essere stata lasciata sola a prendersi cura dell’intera famiglia, con le vecchie e tiranniche domestiche da dirigere e quel beneamato esserino di mia sorella, Annie, da tenere a bada in qualche modo. Annie, ormai, aveva sedici anni e aveva preso in mano la propria educazione già da quattro. Appena compiuti i dodici aveva informato mamma e miss Salter che lei con le lezioni scolastiche aveva chiuso; la annoiavano e le considerava una perdita di tempo. Che cosa potevano interessarle l’aritmetica e la geografia? Era assolutamente sicura che di materie tanto idiote non avrebbe mai avuto bisogno. Quanto alla lettura, assicurava di non aver mai  fatto altro e la sua stanza, d’altra parte, già somigliava al rifugio di un topo di biblioteca di mezza età. Aveva il suo pianoforte – un vecchio Erard dal suono dolcissimo – e suonava divinamente. In nostro maestro di musica danese, Raunkilde, una vera autorità nel suo campo, diceva di farle lezione per suo personale piacere.

 

(Omissis)

 

A Rocca di Papa, comunque, non era mai molto buio. Il palazzo, spoglio e squadrato, era pieno di finestre e prendeva il sole da ogni angolazione; nel cortile c’erano grandi “vasche”, fontane per lavare, dove le contadine sbattevano i nostri vestiti colorati con delle pietre e cantavano tutto il tempo; i begli alberi di castagno ci circondavano e alla fine di settembre il sottobosco era coperto di ciclamini: come farfalle rubescenti su steli di giacinto che sbucavano dalle foglie larghe, modellate misticamente e venate di bianco e di rosso. Nei caldi pomeriggi il loro profumo riempiva l’aria di una selvaggia dolcezza orientale. Rimasi colpita, la prima volta che andai in Inghilterra, di trovare i ciclamini coltivati nei vasi, dentro le serre. Questo – oltre al prezzo dell’uva: uno scellino la libbra – mi convinse che l’Inghilterra fosse un paese afflitto dalla miseria, non completamente riscattato dalla straordinaria intelligenza dei suoi abitanti, tutti in grado di parlare inglese: un’abilità inconsueta nei posti da dove venivo.

 

(Omissis)

 

Quando arrivammo a Rocca di Papa facemmo un’altra escursione nell’antichità. Mi rifiuto assolutamente di credere agli archeologi quando affermano che Annibale non si accampò mai sull’altipiano ricoperto di felci ai piedi di Monte Cavo. Io sì che lo so! Quando mirava a calare su Roma arrivò lassù con le sue orde cartaginesi. E poi, vedendo la potenza e la grandezza di Roma spiegarsi lungo il Tevere come una spada sguainata, scoraggiato e impaurito si voltò e corse via, in cerca di conquiste più facili.  Marion ed io trascorremmo molti pomeriggi estivi alla ricerca di reperti suoi e del suo esercito fra le felci e il timo, ma non ottenendo risultati ci divertimmo ad arrampicarci per quella tortuosa strada romana che ancora oggi conduce alla cima del monte. I suoi basoli piatti erano stati consumati da piedi illustri, quelli dei generali vittoriosi cui la città invidiosa non aveva permesso di trionfare pubblicamente entro le sue mura, ma cui era consentito celebrare il trionfo quassù. Era una passeggiata lunga e calda e quando arrivavamo in cima eravamo soliti sederci a riposare sotto il portico del convento dei Passionisti che il cardinale duca di York, l’ultimo degli Stuart, aveva fatto costruire dentro e sopra le rovine di uno dei templi più antichi, quello di Jupiter Latiaris, dove pregavano i Latini prima ancora che Albalonga (la nostra Albano) desse i natali a Roma. Timidamente suonavamo il campanello e dopo qualche minuto un fratello laico, tutto vestito di nero con il bianco simbolo dei Passionisti sul petto, sporgeva fuori il capo, scompariva e tornava con pane e vino, gli eterni elementi della carità, per il nostro ristoro.

Dopo aver dato in cambio la nostra piccola offerta andavamo a sederci sul basso muro di scure pietre squadrate che ancora racchiudevano un leccio sacro, di cui si diceva che fosse coevo all’antico tempio,  e guardavamo i colli digradare lontano verso Civita Lavinia, la Campagna e il mare.

 

(continua....)