Presentato il libro "Andavamo in vacanza ai Castelli" di Maurizio Bocci

 

Non so neanche io per quale ragione Maurizio Bocci abbia chiamato me per presentare il suo libro; con Maurizio per la prima volta ci siamo visti di persona venerdì scorso, quando me ne ha portato una copia fresca di stampa. Eppure è come se ci conoscessimo da sempre. A parte le frequentazioni  comuni, quello che ci unisce sono le nostre radici. Mi è piaciuta molto una citazione di Aldo Onorati nella sua prefazione. E’ tratta dal libro di Carlo Levi Il futuro ha un cuore antico e dice: “La storia è simile a un grande edificio naturale, il cui trascorso è la radice poderosa, il tronco, ed il presente sono le foglie e i frutti. Se tagliamo alla base questo edificio naturale, non avremo più nulla: né l’ieri, né l’oggi né il giorno a venire”.

Sono grato a Maurizio, inoltre, non soltanto perché ha scelto proprio Rocca di Papa per la prima presentazione del suo nuovo libro, ma soprattutto perché lo ha letteralmente riempito di citazioni di Massimo d’Azeglio. Quello che i nostri antenati chiamavano il sor Massimo, negli anni venti dell’Ottocento era un giovane aristocratico piemontese, il conte Massimo Taparelli d’Azeglio, che aveva delle velleità artistiche ed era venuto a Roma come tutti i pittori europei del suo tempo. Anche lui aveva voluto fare quel “Grand Tour d’Italie” che è un’altra costante nel libro di Maurizio Bocci.

Sono grato a Maurizio, dicevo, perché anche io amo Massimo d’Azeglio e trovo “I miei Ricordi” uno dei libri più belli che siano stati scritti dai protagonisti del Risorgimento italiano. Qui a Rocca la frase su quello che vedeva d’Azeglio dalla finestra di casa sua, nel palazzo Blasi, a cinquanta metri da qua, la sappiamo a memoria. Ma nelle sue Memorie ci sono pagine dedicate ai suoi soggiorni castellani che tutti noi dovremmo conoscere meglio. Maurizio ne cita diverse, a pagina 20 su Albano, a pagina 41 su Ariccia, a pagina 95 su Marino… Ma molti capitoli de “I miei ricordi” sono praticamente ambientati ai Castelli. D’Azeglio ci venne a più riprese a studiare i paesaggi dal vivo e quello che gli rimase più impresso, a leggere quelle memorie, sono proprio le villeggiature.

E vengo al tema di questo intervento che è anche il soggetto del libro: la villeggiatura. Non so, perché non gliel’ho chiesto, se Maurizio ha pensato a me perché ha letto su Facebook che sono nato in una famiglia di albergatori e, da bambino, ho fatto in tempo a conoscere la villeggiatura. In effetti è così. Gli anni Sessanta sono stati l’ultimo decennio della villeggiatura romana tradizionale: un’abitudine che durava da secoli. La villeggiatura era un concetto diverso dalle vacanze di oggi. Cominciarono gli antichi Romani. A Roma d’estate non si poteva resistere per il caldo, l’odore, le mosche. Chi poteva, dunque, si costruiva una villa ai Castelli e ci passava i mesi caldi. Da giugno a ottobre la Roma “che contava” ritornava alle origini albane.

E qui apro un piccolissimo inciso. Parliamo pure di Castelli Romani, ci mancherebbe. Ma io vorrei tanto che si tornasse alla definizione storica di Colli Albani. Noi siamo Albani. Il Monte Albano, il lago Albano… tutto ci riporta al mito di Alba. E secondo me, prima ce ne renderemo conto e prima troveremo il collante necessario per fare della nostra zona un’unica grande città di trecentomila e rotti abitanti. Una città che non ha nulla da invidiare a nessun’altra città del mondo. Altro che Area Metropolitana di Roma.

Tornando agli antichi Romani, tempo fa guardavo la pianta archeologica di Grottaferrata, quella realizzata dal nostro Franco Arietti, e rimanevo stupefatto dal numero delle antiche ville individuate. E la situazione non è diversa negli altri Municipi nostri, da Montecompatri a Velletri.  Ha fatto bene, dunque, Maurizio, a iniziare il proprio racconto da lì, dai tempi in cui Cicerone scriveva le Tuscolanae Disputationes nella sua villa albana. Poi, dopo la parentesi medioevale, si arriva direttamente al tardo Rinascimento, quando sorgono le ville di Frascati e il Papa stabilisce la propria residenza estiva a Castello.

E’ ancora una villeggiatura d’élite. E’ sempre la casta romana, quella di allora: curia, aristocrazia e nobiltà, che fugge dall’aria cattiva di Roma e trasferisce ai Castelli la vita di corte. E’ l’epoca delle grandi ville, dei grandi palazzi che col tempo si svilupperanno soprattutto ad Albano.

E qui mi corre l’obbligo di aprire un altro piccolo inciso. Da ragazzo, quando giravo per Albano mi capitava di alzare gli occhi e rimanevo incantato col naso all’insù a guardare i palazzi. Palazzi ridotti in condizioni pietose, purtroppo, ma pur sempre palazzi magnifici. E mi chiedevo come fosse possibile che un patrimonio simile rimanesse sconosciuto e trascurato. Sabato il Comune di Albano conferisce la cittadinanza onoraria a Alberto Crielesi. Non so quanti di voi sappiano chi è, ma a Rocca Alberto è lo studioso che ci ha fatto conoscere davvero Palazzolo. A Albano, però, Alberto ha fatto di più: ha ricostruito tutta la storia urbanistica e l’anno scorso ha pubblicato due volumi fantastici sui palazzi storici che mi hanno sempre affascinato. Maurizio Bocci sa di che cosa parlo. 

Ne ho accennato perché in quei palazzi, nella prima metà dell’Ottocento, Massimo d’Azeglio incontrava la società romana in villeggiatura. Poi, quando perfino ad Albano faceva troppo caldo, d’Azeglio saliva a Rocca. E qui, se mancavano i palazzi gentilizi dei Castelli più bassi, le famiglie nobili romane possedevano ville e case più modeste, ma la villeggiatura diventava in un certo modo più avventurosa. Si facevano le passeggiate al Tufo, le “somarate” a monte Cavo, si andava a bere l’acqua del Pantanello.

Le abitudini romane, però, continuavano. Mi piace il racconto (sempre narrato da Massimo d’Azeglio al capitolo XXI dei Ricordi) di una certa dama romana che villeggiava a Rocca di Papa:

“Una signora romana era venuta a villeggiare alla Rocca; viveva sola con un bambino che allattava. L' avevo conosciuta in Roma dove, in quei tempi, la politica era lasciata dormire, ed invece, da quindici a sessant' anni, uomini e donne non s' occupavano d' altro che di fare all' amore ; e la signora Erminia, donna oltre i trenta, non poteva su questo particolare meritar rimproveri per tempo perduto o mal impiegato. […] Dopo alcune settimane comparve il suo amante titolare : cioè, secondo l' uso, quello che è per casa a tutte l' ore, senza il quale il marito si trova perduto ; che conduce a scuola i ragazzi, e li mette in castigo fino allo scappellotto inclusivamente ; che malgrado tutto questo, quando la signora va in conversazione, non l'accompagna, ma arriva un quarto prima o un quarto dopo lei per non dar nell’ occhio. “

Insomma, tutto il mondo è paese. E la villeggiatura, nel 1821, non era né più né meno che il trasferimento -un po’ più su e un po’ più al fresco – del “bel mondo “ romano, con pregi e – soprattutto – difetti.

Poi, con la Belle Epoque,  arrivò l’ora della borghesia. Sono i tempi descritti da Geoge Sand, ma anche da personaggi meno noti come Frances Minto Elliot. Con l’unità d’Italia i grandi borghesi romani, quelli che potevano lasciare il lavoro soltanto per un mese o poco più, si uniformarono alle vecchie abitudini di nobili e preti.  Mandavano le famiglie ai Castelli a giugno e le riportavano a Roma a ottobre inoltrato. I mariti la domenica facevano su e giù col treno fino a Frascati e poi in carrozza salivano a Rocca. Ad agosto, invece, venivano su anche loro.

E finalmente arriviamo al Novecento. E’ l’epoca di cui posso parlare con cognizione di causa, perché ho fatto in tempo a vederne la fine. L’epoca d’oro della villeggiatura ai Castelli durò fino al 1960, quando l’apertura dell’aeroporto Leonardo da Vinci a Fiumicino decretò la fine del fenomeno castellano del Jet Set, cioè dei cinematografari che pendolavano dall’America a Cinecittà e pernottavano ai Castelli. Contemporaneamente i Romani iniziarono a viaggiare. L’estate non si andava più in villeggiatura, si andava in vacanza, al mare. Gli stessi Castellani scoprirono Tor Vajanica e, se appena potevano permetterselo, ci si costruivano la casa per l’estate.

I primi sei  decenni del Novecento però sono stati l’età dell’oro per i Castelli Romani. Ha fatto bene Maurizio Bocci a ricorrere ai collezionisti di cartoline. Le cartoline sono oggetti preziosi per rendersi conto del fenomeno “villeggiatura” ai Castelli. In primo luogo per le immagini che ci restituiscono. Ma anche – forse soprattutto – per quello che possono raccontare se soltanto ci si prende la briga di leggere testi e indirizzi. La quantità di cartoline dei Castelli Romani, limitandoci al secolo scorso, è impressionante. Mi sono tolto la curiosità di guardare quante cartoline proponevano due dei principali siti web che le trattano e ho trovato numeri incredibili. Frascati (certo, considerando anche i doppioni) stacca tutti. In vendita si trovano non meno di tremila cartoline. Ma al secondo posto, nei Castelli indovinate chi c’è? Rocca di  papa con quasi mille. Poi a poca distanza vengono Castel Gandolfo, Nemi, Genzano, Grottaferrata. Ma anche per gli altri Comuni, quelli considerati meno “turistici” siamo nell’ordine delle centinaia. Si trovano belle immagini a decine anche di Lanuvio, di Montecompatri o di Colonna.

Devo dire che mi sento un pochino a disagio, nel libro, a trovarmi citato come collezionista accanto a cognomi come Nobiloni o Fioravanti (e scusate se cito soltanto loro, ma siamo amici). A Rocca di Papa, tanto per dire, Angelo La Banca ha messo insieme una collezione che io non oso neanche sognare. Quindi, dato che in fatto di cartoline mi considero poco più che un neofita, smetto di parlarne e passo ai ricordi.

Per sapere tutto, ma proprio tutto della villeggiatura ai Castelli non c’è che un metodo: leggersi da cima a fondo il libro di Maurizio. Forse, però, una questione rimane senza risposta. E’ una domanda che possono porsi soprattutto i giovani: che diavolo facevano i villeggianti? Come passavano il loro tempo? Non c’erano le automobili (o quantomeno non nella misura di adesso). Non c’era la televisione. La radio era un aggeggio complicato che gracchiava peggio di una cornacchia e - fino all’epoca del Juke Box - per sentire un po’ di buona musica c’erano soltanto il grammofono o l’orchestra.

Quello che mi è rimasto più impresso delle mie estati di bambino cresciuto in un albergo pieno di villeggianti è soprattutto una cosa: la conversazione.  Certo, si poteva passare il tempo passeggiando, leggendo, dipingendo, giocando a carte, ma quello che davvero caratterizzava le villeggiature era la conversazione. In una compagnia la presenza di un conversatore brillante era quello che faceva la differenza. Se poi ce n’era più di uno, allora il tempo passava veloce, senza rendersene conto. Immagino che chi è nato e cresciuto nell’epoca della TV e degli altri media “rumorosi” fatichi non poco a immaginare il valore della conversazione. Diciamocelo pure: per un bambino di dieci anni ascoltare per ore persone anziane che parlano di cose e di persone mai viste può sembrare roba da piccoli disadattati. E invece io non soltanto mi divertivo, ma mi ricordo ancora ragionamenti e battute ascoltate cinquant’anni fa.   E non saprei pensare a nulla di più formativo di quei pomeriggi e di quelle serate trascorse al Tufo da bambino ad ascoltare, con le orecchie “appizzate”, le conversazioni dotte o semplicemente brillanti dei nostri clienti.   

In particolare ricordo un trio di conversatori eccezionali. Uno era un anziano monsignore di curia. Un diplomatico del Vaticano che avrebbe potuto benissimo tenere testa a un Mazzarino o a un Richelieu. Era capace di spaccare i capelli in quattro con la bonomia apparente di un vecchio Romano e la sottigliezza dialettica di un gesuita di lungo corso. L’altro era un vecchio professore bolognese di medicina legale, uno che aveva passato la vita a sezionare cadaveri.  Rimasto vedovo, aveva cominciato a venire da noi e per un paio di stagioni non aveva aperto bocca. Si limitava a saluti formali (all’epoca ci si levava il cappello) e mangiava in silenzio in un tavolo d’angolo. A farlo “sciogliere” fu una giovane contessa ligure che un giorno, vedendolo solo e pensoso gli disse, con un sorriso irresistibile: “ Professore, si renda utile!” e gli piazzò in braccio il pupo senza dargli tempo di ribattere. Quando ricomparve pochi minuti dopo il miracolo era avvenuto: l’ombroso dissecatore di salme si era trasformato in un nonno giulivo. Ascoltare quei tre era godimento puro.

Sbaglierò, ma penso che piccoli squarci di vita così spieghino la villeggiatura ai Castelli meglio di un’indagine sociologica.

Dicembre 2016