“Diary of an idle woman in Italy” - seconda parte

"DIARIO DI UNA DONNA PIGRA IN ITALIA"

DI

FRANCES ELLIOT
Autrice di "Quadri della vecchia Roma"

IN DUE VOLUMI
VOL. II

1872

 

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"DIARIO DI UNA DONNA PIGRA IN ITALIA"

DI

FRANCES ELLIOT
Autrice di "Quadri della vecchia Roma"

IN DUE VOLUMI
VOL. II

1872

 

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Il terzo brano del “Diary of an idle woman in Italy”, che lady Frances Minto Elliot pubblicò all’inizio degli anni ’70 dell’Ottocento, in cui l'autrice racconta le disavventure coniugali di Maria, ancella dal caratterino davvero singolare.

 

(Click su questa riga per alcune essenziali note biografiche su Frances Minto Elliot)

 

"DIARIO DI UNA DONNA PIGRA IN ITALIA"

DI

FRANCES ELLIOT
Autrice di "Quadri della vecchia Roma"

IN DUE VOLUMI
VOL. II

1872

 

STORIA DI MARIA, MARITO E FIGLI

Conduciamo vita rustica in stanze che non conoscono tappeti, ma hanno bei pavimenti di scagliola. Per cena talvolta abbiamo carne, altre soltanto uova e pane nero; altre ancora, grazie ai nostri Mercuri, i carbonari di Albano e Frascati, ci diamo alle orge. Oltre alla nostra servitù abbiamo sempre intorno una folla eterogenea e rumorosa. Prima di tutti viene Maria, una fedele contadina, col fresco, roseo aspetto di una rustica Ebe. Porta tutta l’acqua che si usa in casa con una grossa conca di rame sulla testa e lo fa nobilmente, col portamento e l’incedere di una ninfa delle acque, su per le lunghe, lunghissime rampe di scale. Maria si pavoneggia in un fazzoletto rosso che le scende dal capo e ha la chioma fermata da uno spadino d’argento lungo, affilato e pericoloso: è anche un’arma che all’occorrenza potrebbe usare; perché dagli occhi lampeggianti di Maria trapela qualcosa di oscuro. Porta sospesi Intorno al collo lunghi fili di corallo che le conferiscono, insieme alla conca di rame e all’acqua, un che di sirena. La domenica e i giorni di festa Maria indossa un grembiulino rosso con un bel corsetto viola, guarnito di una profusione di nastri bianchi. Ha degli orecchini d’oro e una croce che forse quando va a dormire si toglie, ma credo che il corallo lo tenga anche a letto.

Ci sono storie oscure su Maria, che peraltro è un’anima buona e zelante, sempre disponibile con il suo sorriso scintillante e suoi “Stia bene Signora!” [in italiano nel testo] pronunciati di cuore. E’ sposata con un bruto, un esemplare di “cacciatore” che divide il suo tempo vagando nei boschi e bevendo allo “spaccio di vino” [in italiano nel testo] da cui - era la sua “abitudine pomeridiana” - tornava a casa ubriaco e picchiava tremendamente Maria.

 

Maria, che era una ragazza attraente e che, se non fosse stato per un’insana passione per il suo indegno Nimrod [cacciatore mitico, ndt] avrebbe potuto fare un matrimonio migliore, per un po’ sopportò docilmente. Accettava le percosse in silenzio, spargendo lacrime tristi e amare sul suo amore sventurato, il suo unico vero amore. Ma era un’Italiana. Nelle sue vene scorreva sangue caldo e, piano piano, il desiderio di vendetta finì per spezzare le catene del suo cuore. Si sarebbe vendicata, vendicata dell’uomo che così ignobilmente aveva abusato di lei. 

L’occasione non si fece attendere. Ferdinando si era presentato nel loro miserabile tugurio solennemente ubriaco e si era gettato sul talamo nuziale (ovvero sull’unico letto che possedevano). Maria attendeva il suo ritorno in un minaccioso silenzio. Si alzò e prese aghi e forbici: le armi del nostro sesso; si sedette accanto al letto dove il suo infame consorte giaceva nel suo sonno bestiale e cominciò a cucire. Sì, a cucire, unendo insieme strettamente le due lenzuola. La sua mano non tremò, ma i suoi occhi mandarono per tutto il tempo uno sguardo di morte, carico d’odio. Cucì finché Ferdinando non fu interamente rinchiuso, come in una rete. Quindi si alzò, con gli occhi che mandavano bagliori di una luce ancora più cupa, e si diresse nell’angolo dove lui teneva i fucili, i bastoni e i coltelli. La mano le andò istintivamente a un lungo pugnale, ma ebbe un tremito e la ritrasse. Quindi si fermò e impugnò strettamente il randello più grosso e pesante che trovò. Un sorriso satanico le illuminò il viso mentre sollevava il pesante bastone e gli menava una poderosa legnata, e poi un’altra e un’altra finché l’ubriaco, reso improvvisamente sobrio dal dolore, iniziò a contorcersi e ad agitarsi nell’agonia, in un lago di sangue. Le sue urla strazianti allarmarono i vicini che quando irruppero nella stanza si ritrassero sbigottiti per la scena infernale. Perché Maria, resa selvaggia dall’odio, infieriva sul marito come una furia vendicatrice: senza freno, asessuata, impazzita. Fu bloccata da dietro e le fu strappato il randello dalle mani. Ritornata in sé, ebbe soltanto il tempo di svenire. Il marito, quando fu liberato dalle lenzuola, era quasi morto. Passarono mesi prima che si riprendesse, ma ormai era un uomo domo e umiliato, che cercava di evitare Maria come un cane bastonato. La miseria li costrinse a rimanere sotto lo stesso tetto, ma non si parlavano più. Quando arrivammo noi era già passato un anno e Maria appariva gioviale e serena. Aveva vinto, e – se non fosse stato per un certo bagliore sinistro nei suoi occhi – non avrei mai potuto credere a un racconto così tragico.

 

Dietro la villa abbiamo un cortile, quanto di più simile a un cortile inglese mi sia capitato di vedere in Italia. Mi piace perché mi ricorda la patria lontana. Ci sono grossi mucchi di legna da ardere e tribù di pollastri. Tre oche malinconiche si aggirano in cerca di pozze d’acqua che non troveranno mai; cavalli che tornano dai boschi per il loro foraggio serale e cani che sonnecchiano tutto il giorno nell’ombra. Ma, pensandoci bene, non è l’Inghilterra; perché all’Ave Maria, nella piacevole ora serale, torna il tranquillo Michele, l’uomo di fatica, seguito da una mandria di vacche grigie dalle corna possenti, da file di muli carichi di legna e da cavalli con le groppe affastellate col fieno dolcemente odoroso dei Campi d’Annibale. Anche qui il fianco della collina è terrazzato di vigne. I miei figli giocano a bocci nell’ombra sotto la lunga pergola piena di grappoli e più in basso nel bosco, quando i monaci si riuniscono per la preghiera della sera, si sente arrivare dal convento un sommesso suono di cantici.

Ma non vi ho ancora presentato l’altra metà dei caratteri del nostro rifugio sulla roccia, le cui case, come un tempo, sono incatenate alla roccia un po’ alla maniera di Prometeo. Ci sono i figli di Maria, che si riuniscono vicino alle porte e si rivoltano nella polvere o dormono sulla nuda pietra; robusti mascalzoncelli ignari tanto del sapone quanto dell’algebra. Luigi, il più piccolo, ha gli occhi di sua madre ed è veramente una piccola bellezza: tondo, grassottello e grazioso come un giovane Cupido, se soltanto fosse ripulito da tutta la sporcizia accumulata nei suoi due anni di vita. Lo si vede sempre maneggiare un grosso coltello da cucina, rischiando un improvviso felo de se [suicidio] quando rotola giù da una rampa di scale, circostanza che si ripete più volte al giorno. La sua soddisfazione più grande è di sedersi in mezzo a galli e galline e alle tre oche misantrope che si affollano intorno a lui con un’inammissibile impudenza a becchettare il tozzo di pane che lui sta ciancicando – impudenza che egli rintuzza strillando a pieni polmoni e brandendo il suo coltello, con una performance degna di un Ercole infante. Il marmocchio Imprecherebbe se sapesse parlare. Oltre a capitombolare per le scale, egli ha una sconfinata attrazione per l’acqua, la quale attrazione diabolica lo ha condotto l’altro giorno a trotterellare per strada fino alla fontana del paese, dove è stato trovato a testa in giù, coi piedi per aria e quasi affogato. Grande è stata l’indignazione di Maria che, somministrandogli una botta ravvivante l’ha tenuto rovesciato per i piedi finché tutta l’acqua gli è uscita dalla bocca, dopodiché l’ha riportato a casa avvolto nel grembiule come un coniglio morto. Il giorno dopo, comunque, era di nuovo a lottare gagliardamente con cani, galli, galline e oche: sempre lo stesso piccolo scavezzacollo.

Luigi, bisogna ammetterlo, si diverte anche con la sua sorellina, che picchia a volonté tranne quando la sua giovane zia Filomena (una fanciulla alta e ben messa di una quindicina di primavere che tutto il giorno porta sulla testa mucchi di mattoni agli operai che stanno riparando il muro di sotto) trova il tempo di bloccarlo in un angoletto riparato e gli dimostra praticamente le sue idee sull’educazione con argomenti molto convincenti: schiaffoni che inducono il povero Luigi a strillare tanto da svegliare i morti della Rocca. E’ una piccola anima nera, Filomena: capace di qualsiasi malizia.

Ma ben presto un grato tributo ai sentimenti di Luigi viene pagato da Maria la quale, precipitatasi fuori al baccano, picchia a sua volta la sorella, rispedendola a caricarsi mattoni sulla testa.

Da non dimenticare, poi, la nostra padrona di casa Sora Nena [in Italiano nel testo], un’enorme, corpulenta matrona di una quarantina d’anni che se la spassa sorseggiando tutto il giorno il buon “vino sincero”. Questa egregia signora si distingue per un certo andamento malfermo e per un’espressione degli occhi vaga, nebulosa, quando (con un vistoso fazzoletto che le pende dalla testa) scende in cortile a prendere il fresco dopo il tramonto del sole.  Di solito bofonchia qualche frase inarticolata, incomprensibile a chiunque tranne che ai pollastri e alle oche depresse che si affollano attorno a lei in un coro starnazzante, saltandole sulla testa e sulle spalle: una delicata attenzione che lei ripaga con un po’ di granturco. Quindi va a sedersi vicino alla porticina del pollaio in uno stato di torpida incoscienza e, a intervalli, chiama debolmente Rosa, la sua serva, la quale infine la riporta a casa. Suo marito, L-- , le nouveau riche, [l’arricchito, ndt] è un caso a parte, nel suo genere. Ha iniziato la sua carriera come pastore poi, o perché ha trovato un tesoro a Monte Cavo o perché ha imbrogliato egregiamente i suoi datori di lavoro, ha messo insieme una fortuna notevole. Comprando terreni, boschi, greggi e mandrie è diventato un “gran signore” [in Italiano nel testo], senza la minima idea di come spendere o godersi i suoi soldi, a parte taglieggiare e opprimere i poveri. E’ rimasto nascosto nei boschi per settimane per evitare di essere ammazzato da quelli che aveva maltrattato: dozzine di uomini che hanno giurato di fargli la pelle. Come ai tempi repubblicani della liberazione di Roma i giovani patrizi avevano giurato di sbarazzarsi del nemico della loro patria, l’etrusco Porsenna.

Questo è l’ambiente domestico della nostra villeggiatura. Fuori c’è una strada che sale quasi a perpendicolo verso il culmine della rocca, dove alcuni antichi alberi – rovinati e consunti dalle intemperie e dai secoli – pendono sui resti di una fortezza, un tempo proprietà degli Orsini, ma oggi feudo dei loro mortali nemici: i Colonna. Assediata e conquistata dal Duca di Calabria nel 1484 e in seguito dai Caraffeschi e dal Duca d’Alba, questo rudere oggi desolato ha echeggiato spesso al rombo dell’artiglieria. La roccia sulla quale era costruita fu formata in origine dai depositi di lava di quello che un tempo fu un grande vulcano. Oggi il paese è appollaiato sul bordo più esterno dell’antico cratere; il suolo, le sponde, le rocce: tutto è di lava. All’ombra della cittadella medievale il Duomo si affaccia alla sommità dell’unica strada, con le sue profonde, melodiose campane che danno il tempo all’intero paese e ci rammentano (anche se chiudiamo gli occhi e sogniamo, piacevoli sogni di cime lontane) che il mondo si muove di fretta intorno a noi, febbrile, impetuoso. E ci ricordano che la gioia e il dolore, l’amore, l’odio e ogni mutevole passione dominano ancora il tempo che passa in questo mondo disteso ai nostri piedi.