“Diary of an idle woman in Italy” - prima parte

(La dedica della scrittrice al marito)

 

In rete si fanno sempre nuove scoperte sugli scrittori stranieri che, soprattutto nell’Ottocento, hanno visitato Rocca di Papa e hanno lasciato testimonianze rivelatrici nei loro diari o nei loro romanzi.  Quasi per caso, anche stavolta, mi sono imbattuto negli scritti di una nobildonna inglese che ha amato molto l’Italia, al punto da venirci a vivere (e morire, è sepolta a Roma, nel Cimitero Acattolico). Visto che i miei tentativi precedenti di tradurre qualche capitolo di opere inedite in Italiano (o non più disponibili nella nostra lingua) non mi ha procurato il ridicolo che temevo, ci riprovo: ho cercato di rendere accessibili a tutti un paio di capitoli (ma ce ne sarebbero altri) del “Diary of an idle woman in Italy”, che lady Frances Minto Elliot pubblicò all’inizio degli anni ’70 dell’Ottocento. Mi sono parse particolarmente gustose sia la descrizione del “viaggio” da Roma a Rocca di Papa sia quella della villeggiatura nella nostra città. Il brano più divertente, però, secondo me è quello in cui la Elliot racconta le disavventure coniugali di Maria: ancella dal caratterino davvero singolare.

Click su questa riga per alcune essenziali note biografiche su Frances Minto Elliot.

Qui di seguito, invece, i primi due brani a cui ho arbitrariamente attribuito il titolo "Verso la Rocca"  e "Finalmente in villeggiatura".

 

 

"DIARIO DI UNA DONNA PIGRA IN ITALIA"

DI

FRANCES ELLIOT
Autrice di "Quadri della vecchia Roma"

IN DUE VOLUMI
VOL. II

1872

 

VERSO LA ROCCA

Per quanto il clima di Roma sia delizioso, proprio la sua mitezza lo rende così estenuante, snervante, che dopo un soggiorno di sei o sette mesi il fisico, debilitato, chiede un cambiamento. Il problema, però, è dove andare: un quesito cui non è facile dare risposta. Forse nessuna grande città al mondo ha mai avuto tanto bisogno di qualche località di villeggiatura a portata di mano – un bisogno che nasce dalla vastità della desolata Campagna che stringe la città da ogni parte, come un opprimente corsetto.  Non c’è casa, persona o animale in grado di prosperare su questo suolo insalubre che d’estate, con le sue mortifere esalazioni notturne, è così pernicioso da allontanare perfino il bestiame dai pascoli.  Bisogna sobbarcarsi sedici lunghe miglia di strada o di ferrovia, fino a Albano, Ariccia o Frascati, prima che appaia qualcosa di simile a una località estiva. Che pellegrinaggi faticosi ho fatto! Che tuguri orribili (tutti di proprietà di principi) ho dovuto vedere.  Ogni volta tornavo a casa sempre più disgustata. Alla fine sentimmo di certi alloggi decenti a Rocca di Papa e prenotammo immediatamente. La Rocca, che da Roma si vede distintamente, a destra di Frascati, è un vero e proprio nido d’aquila, appollaiato al limite dei Colli Albani. Da lontano sembra un luogo irraggiungibile, se non con una teleferica o in mongolfiera. Ma staremo a vedere. L’aria è la più pura nelle vicinanze di Roma e le brezze marine arrivano ad accarezzare i suoi boschi con una frescura deliziosa. Abbiamo raggiunto la nostra villeggiatura e siamoMa devo andare con ordine. Alle quattro siamo saliti in carrozza (i nostri bagagli ci hanno preceduto in un carro davvero primitivo tirato da due buoi). Mentre scendevo le ripide scale che portano alle nostre stanze, al secondo [in Italiano nel testo] – quelle tipiche scale romane, lerce ed abominevoli a dispetto di ogni rimostranza – e guardavo nei recessi del cortile interno (un posto dove a Londra, a causa degli odori vari e terribili, si precipiterebbe l’ispettore sanitario), mi sentivo davvero sentimentale e non potevo sopportare l’idea di voltare le spalle alla magnifica Roma, fosse pure per un’assenza temporanea. Ma questa debolezza cedeva davanti alla prospettiva della rustica bellezza e delle reminiscenze storiche che i Colli Albani avevano in serbo per me; così, sospirato un addio all’imponente collina del Pincio e mandato un saluto alla cupola di S. Pietro e al Colosseo, uscimmo da Porta San Giovanni.

Attraversata la Campagna, ci arrampichiamo sullo sperone più basso dei Colli Albani, verso Grotta Ferrata. Davanti a noi si schiude uno scenario ameno e gradevole: ricompaiono le coltivazioni; ci sono oliveti che promettono frutti abbondanti e vasti vigneti che si adagiano sui fianchi assolati delle valli verso ruscelletti gorgoglianti. C’è una vecchia torre in rovina che svetta su un aspra montagnola, al disopra della quale i colli verso cui ci stiamo dirigendo si innalzano quasi perpendicolari nel cielo azzurro, leggermente offuscato dall’approssimarsi della sera. Ora siamo a Grotta Ferrata, un paesino addossato filialmente a un enorme monastero fortificato: un maniero feudale accigliato che incombe su un prato erboso cui si accede da nobili viali di antichi alberi d’olmo.  All’interno del convento ci sono i magnifici affreschi del Domenichino, ma pazienza! Evitiamo ogni descrizione; dobbiamo arrivare alla Rocca. I poveri cavalli, sfiniti e accaldati, si riposano un attimo davanti all’osteria, un luogo pieno di mosche dove condiscono il salame annegato nell’olio: un’idea che ci allarma talmente da convincerci a non fermarci nemmeno. Un vecchio ci viene incontro zoppicando con un fiasco impagliato in mano e ci chiede se “le eccellenze non vogliono bere”, “no, grazie”. Allora si allontana augurandoci “buon viaggio” con sincera compunzione, come se dovessimo arrivare sulla luna in groppa all’ippogrifo di Astolfo. Appena i cavalli hanno ripreso fiato, ci immergiamo in viottoli tenebrosi e lungo strade disseminate di enormi macigni che devono essere là fin dai tempi in cui Ascanio fondò Alba. Ma se le vie sono impervie, com’è delizioso, invece, l’ingarbugliato intreccio di fiori e muschio che riveste le scarpate su entrambi i lati: vitalba, viticci e il gaio convolvolo avvolgono ogni pietra e ogni ramo con deliziose ghirlande.  

La strada non finisce mai. Diventa sempre più brutta e ci sembra infossarci sempre di più fra le pareti rocciose. “Sarebbe bello incontrare almeno qualcuno!” Appena pronunciate queste parole, proprio dietro un angolo appare una fila di carri che ci vengono incontro. “Per favore, fermatevi”, grida il nostro Jehu. I conducenti rispondono “Sì, sì, va tutto bene. Potete passare” (gli italiani, quando non li si provoca sono così educati!). Quindi, dopo grida e clamori inauditi (perché nulla può essere portato a termine senza una dose smodata di chiacchiere), buoi e carri vengono accostati su un lato della strada e Jehu, schioccando la frusta, può procedere oltre.

Quando infine emergiamo da questi viottoli infossati ci ritroviamo in una sterminata foresta di splendidi alberi di castagno – un raro bosco antico rinchiuso da monti superbi velati dalla stessa copertura frondosa. La sera spande intorno tinte delicate, accentuando le ombre e oscurando gli squarci di vedute fra quegli alberi antichi i cui tronchi argentei catturano gli ultimi raggi del sole calante. Ma più splendida di tutto è la ginestra, che forma un sottobosco dorato magnifico da vedere. I cespugli dorati ondeggiano sui colli, nei burroni boscosi sprofondati nelle valli, formando masse di colore che, mischiandosi con il verde brillante, appaiono accecanti.

Davanti a noi ora si erge una ripida salita e un piccolo squarcio nella galleria verde ci svela la Rocca, alta sul culmine della montagna: un grigio ammasso misterioso che guarda giù dispettosamente, come se si prendesse gioco dei nostri tentativi di raggiungerlo. Sembra lontano come appariva dalla Campagna. Come si sforzano, i cavalli, per tirare la carrozza su per quella salita senza fine! Eppure devono, perché già appaiono le stelle e il bosco scuro si oscura e si richiude su di noi come una visione da incubo.

In un’edicola a fianco della strada è stato eretto un altarino alla Madonna. Contiene un’immagine di lei che tiene in grembo Gesù bambino. Un lume arde fioco davanti al quadro e spande sulla strada i suoi deboli bagliori: in un bicchiere rotto sono stati messi dei fiori e un tappeto di gialli petali di ginestra è stato sparso in onore della Vergine-madre. Mentre procediamo (piuttosto lentamente, ora, perché è quasi buio) qualcuno accenna ai briganti facendoci sentire un pochino a disagio, ma dato che nessuno lo vuole ammettere, cade un silenzio di tomba. Alla fine ci fermiamo. Siamo arrivati fino a dove la carrozza ci può portare e dobbiamo camminare fino alla casa. E così, buona notte! [in Italiano nel testo].

 

FINALMENTE IN VILLEGGIATURA

Stamattina presto ho spalancato le persiane e ho guardalo fuori. Non dimenticherò mai il brivido di estasiata delizia con cui ho contemplato quel panorama magnifico. L’intero universo sembrava giacere ai miei piedi; e ho pensato a Satana, all’altissimo monte da cui tutti i regni della terra furono mostrati al Redentore e mi chiedevo se di fronte a Lui si fosse presentato un orizzonte più vasto. Era stupendo. Una descrizione non può rendere giustizia se non vagamente a questa unione maestosa di boschi, verdi e d’oro, che si fondono deliziosamente nelle pianure le quali, a loro volta, si fondono in una città contornata da monti d’un pallido blu. Le montagne si confondono col mare in una distanza vaga, aerea; e il mare si dissolve a sua volta nel cielo. Sotto di me si estende la sconfinata, smisurata Campagna, un deserto soffice e mosso che si increspa, ondulato, riflettendo ogni movimento delle nuvole che passano: ora incupito da vaste masse d’ombra, come enormi chimere galleggianti, ora danzante nell’abbacinante luce solare. Un territorio immenso, irregolare e cangiante come il suo modello: il mare. Vedevo i campi di grano gialli, i pascoli smeraldini, la solitudine delle praterie incolte, riarse e calcinate, mentre qua e là si ergeva un sepolcro cupo, una torre diroccata o il colonnato di una villa. In fondo, come innalzata su un solido piedistallo, Roma: quella grande e inesprimibile “parola-Sfinge” che solo il giudizio finale potrà svelare, intronizzata sui suoi sette mitici colli; qua e là si scorge un punto luminoso o brillante che si rivela essere un portico massiccio, una cupola, un obelisco: eppure tutto vago e indefinito come quell’Eternità cui la sua esistenza è così misteriosamente connessa.

Sulla destra, dove la vasta pianura svanisce nella caliginosa distanza, si eleva improvvisamente il Monte Soratte – l’antica dimora di Apollo – solitario, isolato con i suoi aspri pendii, le sue alture ombreggiate dalla foresta Cimmeria [luogo mitico, ndr], che conduce lo sguardo fino alla graziosa catena dei Monti Sabini. A sinistra, una striscia d’argento si insinua nella pianura: il sacro Tevere, torcendosi e attorcigliandosi come un filo scintillante, scorre verso Ostia e il mare. Oh, le brezze celestiali che venivano ad accarezzarmi, fresche come il respiro del mattino! Sentivo il Bene con me in questa stupenda solitudine, dove tutti gli elementi della Natura – terra, mare e aria – danzavano e si rallegravano, come partecipi della mia gioia.

Più a portata di mano, Grotta Ferrata, Marino e, sulla cresta del Lago Albano, Castel Gandolfo, orientalizzante con le sue cupole. Dietro a me sorgeva l’altura conica di Monte Cavo, un diadema di alberi antichi che ondeggiavano davanti al bianco convento sulla sua sommità, mentre più giù, sul lato opposto, in una lunga fila, dove anticamente era la Valle Latina, una dopo l’altra le alture dell’antica Tusculum, oggi fertili e verdi coi giardini della moderna Frascati. Guardando, davanti ai miei occhi fluttuavano le immagini di Roma, mitica e storica: Viriglio, Orazio, il vecchio e curioso Livio, il cortese Tacito e l’amaro Suetonio erano lì; non ombre dell’antichità, ma reali uomini viventi. Su questa terra erano vissuti, su questi monti avevano cantato, su queste pianure gli eroi che i loro testi hanno immortalato hanno combattuto e vinto. La storia classica si apriva davanti a me come un libro, pagina dopo pagina da leggere in queste linee dorate, in queste valli vuote e queste lontane estensioni.

Ci stiamo sistemando nella nostra nuova casa, una casa che i lettori inglesi troverebbero piuttosto strana. Una grande porta spalancata sulla strada (larga abbastanza da farci passare un carro) introduce a un grosso passaggio o atrio, qualcosa a metà fra una cella e una cantina, dove stanno i cavalli e i ragazzi si divertono a giocare a “mora – un, due tré, sempre l’istesso. Delle rampe di scale, spazzate molto raramente, portano a fino a un’altezza da torre di Babele, con ogni pianerottolo che è considerato una casa a parte, con la sua porta e il suo campanello. Al primo piano alcuni italiani si godono la villeggiatura dividendo il loro tempo fra il dormire e il mangiare, con quest’ultima operazione annunciata da un fortissimo odore di aglio. Le loro finestre sono sempre chiuse, e quasi non escono quasi mai; per cui devono divertirsi molto, lì dentro. Ma stavo dimenticando, c’è qualcosa in corso a Rocca di Papa che fornisce materia di conversazione e di svago ai languidi indigeni. Una contessa, bruna e rinsecchita come un guscio di noce, dopo aver trascorso una vita di “divertimento” [in italiano nel testo] e aver dato molto scandalo, ai suoi tempi, è diventata vedova e adesso beneficia dei teneri riguardi di un tale giovane marchese della Guardia Nobile, povero come Giobbe e bizzarro come il Figliol Prodigo. Quando la sua borsa è vuota monta a cavallo e viene a far visita alla sua vecchia Fillide [che si trasformò in nocciolo, ndr], la quale lo ricopre di amore e di soldi con voluttuosa benevolenza. Incassati entrambi, il galante cavaliere se ne torna a Roma lasciando la venerabile contessa inconsolabile, fino alla prossima volta in cui le sue tasche lo richiederanno. “Telle est la vie, même au fond de forêts!“ [ in Francese nel testo: “E’ questa la vita, anche in mezzo ai boschi”].

 

 

Fra qualche giorno ...... "STORIA DI MARIA, MARITO E FIGLI".