Il castagno da frutto

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6.2.2    Il CASTAGNO DA FRUTTO

 

Elvio  Bellini,   Luigi Vezzalini  

E.Bellini: Presidente del Centro di Studio e Documentazione sul Castagno (Marradi, FI.
L.Vezzalini: Dirigente del Settore Agricoltura  e tutela del territorio dell’Unione dei Comuni “Terre di Castelli” di Modena.

 

Per il nostro Paese la castanicoltura da frutto è stata, ed è tuttora, una risorsa importantissima, dal punto di vista territoriale, sociale, economico, ambientale, nutritivo.  Parlarvi dello stato e problematica dal punto di vista scientifico, tecnico, operativo,  sarebbe una gioia per chi la ama e la conosce, come me, ma richiederebbe intere giornate. Oggi devo invece essere molto sintetico.

Da questa considerazione scaturisce subito un buon consiglio, indirizzato non ai soli diretti operatori di questo settore (castanicoltori e  imprenditori  di vario livello, vivaisti ed altri di filiera), ma anche a funzionari (amministratori pubblici, ambientalisti, politici locali):  informatevi leggendo  innanzitutto gli Atti dei Convegni Nazionali sul Castagno.

Periodicamente infatti,  ogni 4 anni,  nei Convegni nazionali che l’Italia svolge in sedi differenti, la castanicoltura  (da frutto e da legno)  viene considerata, analizzata, discussa in tutti i suoi  tanti e diversi  aspetti:   non solo storici, paesaggistici, ecologici, ma anche di genetica, tecnica colturale, fitosanitari, economici , di valorizzazione e di marketing;  molte attenzioni sono sempre rivolte alle innovazioni riguardanti la raccolta dei frutti,  le lavorazioni post-raccolta, la definizione della qualità, nuovi prodotti ottenibili con la trasformazione;  negli ultimi convegni si è discusso molto di biomasse. 

Gli Atti di questi Convegni (che ne riportano i lavori) costituiscono una fonte preziosa di aggiornamento e di conoscenze , utilissimi sia per quanti già svolgono castanicoltura, sia per chi la vuole iniziare, sia per quanti si imbattono in nuove incertezze (mutamenti nei mercati, nella  politica agricola europea e nazionale, arrivo di parassiti nuovi, ecc).  Gli Atti dell’ultimo Congresso (Cuneo, 2009) sono disponibili in web (www.centrocastanicoltura.unito.it/Volume_Castanea%202009.pdf).  Il prossimo sarà in Tuscia, a Viterbo, proprio nel 2003, organizzato dal prof. Andrea Vannini.

In web si trova anche il Piano di Settore Castagno  (www.politicheagricole.it/piano del settore castanicolo 2010/2013) un documento molto importante per la castanicoltura da frutto del futuro. Ha infatti messo in rassegna organica tutta la serie delle sue problematiche attuali, indicando anche (a scienziati, legislatori, operatori) le linee di intervento utili a risolverle, e le priorità da affrontare.  Il Piano di Settore  deriva, sì, dall’ originario obiettivo di affrontare urgentemente il problema  cinipide del castagno, ma la sua elaborazione si è poi ampliata a considerare tutta la complessità della castanicoltura italiana. Questo settore infatti ha perso nei decenni la sua tradizionale struttura e valenza, ma resta pur sempre un investimento ambientale utile, va visto con occhi nuovi e considerato patrimonio potenzialmente  utilissimo per la nuova economia, che sarà sempre più aperta alla globalizzazione.

 

Nella estesissima vecchia castanicoltura da frutto italiana possiamo allora distinguere alcune principali tipologie. 

C’è una castanicoltura economicamente privilegiata, non degradata, che da sempre riceve cure colturali attente,  che più dispone di fattori strutturali e infrastrutturali favorevoli predisponenti   (impianti di sufficiente ampiezza e produzione, con cultivar di qualità, ubicati in aree favorevoli per clima, quota, giacitura, struttura e dotazione organica del terreno; occorre  capacità imprenditoriale di buon livello, conduzione razionale, viabilità interpoderale almeno sufficiente, meccanizzabilità,  ecc).   In alcuni territori castanicoli dell’Appennino italiano i fattori sopradetti  ci sono e portano molto reddito, come accade a Montella  (Avellino), area esemplare per il legame che la gente locale ha col territorio e con le piante, lì sono nate iniziative d’artigianato e piccole industrie, cooperative e marchi di valorizzazione (tra cui una IGP).  In questa tipologia si va ad imparare come fare.

In altri territori, legati con radici profonde alla tradizione e aventi marroni di qualità (es. Marradi, Monte Amiata, Mugello, Castel del Rio),  ruolo determinante è stato invece svolto dall’associazionismo e dalla sinergia tra enti locali, che hanno coinvolto molta cittadinanza.

In altri ancora, ad es.  Segni,  Cave,  pur dotati di possibilità aperte, sembra manchi il necessario  desiderio comune della cittadinanza, di capire la potenzialità ancora inespressa dai locali marroni e di impegnarsi in una valorizzazione comune.  Questo d’altronde accade spesso là dove il reddito prevalente deriva da attività non agricole (servizi, uffici, industria ecc). Traggo questi esempi locali dalla mia passata esperienza di sopralluoghi a Segni e da quanto l’Alveare mi ha riferito in questi giorni.

Abbiamo inoltre  vaste aree di castanicoltura degradata, per ché non più curata dai proprietari (o dal conduttore), non  riceve potature  né concimazioni, talvolta neppure l’unica pulizia autunnale  che consente di raccogliere (con una, massimo due passate) i frutti. Talvolta però c’è ancora in zona chi sa innestare e potare. Questa castanicoltura apre le vie a raccoglitori occasionali esterni alla proprietà, perciò se vicina a paesi può essere recuperata e diventare oggetto di richiamo turistico. Qui il problema principale è la assenza di forme associate,  necessarie per ridurre i costi colturali e la gestione.

Che fare, in queste ultime tipologie, se un castagneto da frutto “rende” poco o non rende più come una volta?
1. Rendersi conto che il castagno è sempre stato e sarà una pianta “multifunzionale”.  La scarsa resa spesso dipende dal non aver considerato quanti e quali altri beni dà e possono essere valorizzati  con intelligenza, oltre ai beni “diretti” del frutto e del legno.  Sulla Multifunzionalità  trovate nella cartellina di questo Convegno alcune pagine ben esplicative.
2. Essere consapevoli che sono necessarie alcune condizioni favorevoli:   cooperazione tra più proprietari e conduttori; mercato accessibile e domanda attiva; imprenditoria aggiornata; viabilità di accesso ai fondi e interna ad essi.
3.  Se le varietà già presenti  nei fondi sono di qualità (piante innestate, con presenza di impollinatori, valide per quantità e qualità dei frutti, ecc),  si possono recuperare gli impianti mediante adeguate  potature (più o meno forti e ove serve di ricostituzione), sistemazioni del terreno, concimazioni,  infittimenti, cure degli innesti e antiparassitarie, ecc.
4. Se le varietà vanno sostituite, la tecnica da applicare è più onerosa economicamente e richiede manodopera specializzata più assidua, per attuare potature di ricostituzione (se non addirittura ceduazioni), reinnesti o nuovi innesti, infittimenti, ripuliture frequenti, ecc).

Infine c’è una castanicoltura troppo marginale (perché in quote alte o accidentate, prive di manodopera, mal raggiungibile e con frutti quasi selvatici, a proprietà frammentatissima, ecc) ed è senz’altro destinata a forestazione.

In questi castagneti non più recuperabili, che fare?
1. Le condizioni necessarie per ridurre le spese di intervento e di futura gestione sono : viabilità almeno discreta; accordi tra più proprietari limitrofi.
2. Se i castagneti  da frutto hanno molte piante adulte (150 p/ha o più), le si abbattono  e si inizia la gestione a ceduo.
3. Se la densità di piante è inferiore, le si abbattono e si porta a ceduo o per via naturale (tramite la disseminazione spontanea dei castagni), o mediante infittimenti (con castagni oppure  con altre essenze di latifoglie e non, a seconda del tipo di impianto forestale che si desidera comporre).

 

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