Altri aspetti del territorio e dell'ambiente locale

 

3.5       ALTRI  ASPETTI  DEL  TERRITORIO  E  DELL’AMBIENTE  LOCALE

 

(indietro)

Il Castagno nella letteratura del territorio Castelli Romani e Monti Prenestini

 

I boschi di Rocca di Papa nella letteratura   (Guarinoni)

          Ove si escludano i molti riferimenti al territorio di Alba Longa  (un recente studio dell’Ecole Francaise de Rome ne ha elencati ben 25, da Fabio Pittore a Isidoro di Siviglia)  la prima menzione ai boschi dei Castelli, o meglio dei Colli Albani, si può trovare al paragrafo 85 dell’orazione di Cicerone “Pro Milone” (quella in cui Cicerone perora - vanamente, peraltro - la causa di Tito Annio Milone, accusato dell’uccisione di Clodio a Bovillae):  “Ma siete voi, colline e boschi sacri d'Alba, siete voi, lo dico, che invoco e chiamo a testimoni. E voi pure, altari abbattuti degli Albani, associati ai culti sacri del popolo romano ed ugualmente antichi, che egli, reso furioso dalla follia, dopo aver tagliato e raso al suolo i boschi più venerabili, aveva sepolto sotto la mole smisurata delle fondamenta della sua villa: allora il vostro carattere sacro riprese vigore e prevalse la vostra potenza, che egli aveva offeso con delitti d'ogni genere. E tu dall'alto del tuo monte, santo Giove Laziale, il cui lago i cui boschi e i territori sacri aveva macchiato con ogni genere di scellerata profanazione, finalmente hai aperto gli occhi per punirlo; a voi, a voi e in vostra presenza ha reso soddisfazione, tardi ma in modo giusto e meritato.”
          Pio II (nato Enea Sivio Piccolomini), nei suoi “Commentari” scritti a partire dal 1458, ma pubblicati nel 1584, descrisse il paesaggio che attraversò nella primavera del 1464 per recarsi al castello di Rocca di Papa dove fu ospite del card. Prospero Colonna.
          Stendhal, che venne in Italia per la prima volta a 19 anni, nel 1802, ma ci ritornò spesso e a lungo, trascorrendovi circa un terzo della propria vita, descrive diffusamente le foreste dei Castelli Romani nelle sue “Cronache” e, in particolare, parla diffusamente della Macchia della Fajola nella “Badessa di Castro”. Nelle sue “Passeggiate romane” invece, alla data del 28 agosto 1827, si trova questa frase:
  "Il più bel bosco del mondo è quello dell’Ariccia: grandi blocchi nerastri di roccia nuda spuntano in mezzo a un bellissimo verde ed ai pittoreschi disegni del fogliame. Lo straordinario vigore della vegetazione mostra chiaramente che i Colli Albani sono un antico vulcano.”
          Massimo d’Azeglio, primo ministro del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852, non si limitò a descrivere il paesaggio di  (e da) Rocca di Papa nel capitolo dedicato alla storia di “Carluccio” ne “I miei ricordi”, ma (probabilmente nel corso del suo primo soggiorno a Rocca, nel 1821) dipinse diversi quadri che raffigurano i nostri boschi di castagno, alcuni dei quali sono stati riprodotti nel libro di Massimo Saba “Rocca di Papa, belvedere di Roma”, La Spiga 2003.
          Hans Christian Andersen, nel suo romanzo del 1835, “L’’improvvisatore”, ambienta l’ultimo capitolo fra contadini e briganti di Rocca di Papa e descrive le foreste dei Colli Albani in toni fantastici.
          Augustus Hare, scrittore inglese della seconda metà dell’Ottocento, parla di Rocca di Papa e dei suoi boschi (in particolare della Macchia della Fajola infestata dai briganti) nel suo “Days near Rome”.
          Richard Voss, un prolifico scrittore tedesco del XIX secolo che abitò a lungo a Frascati, a villa Falconieri, nel suo “Du, mein Italien” cita ripetutamente Rocca di Papa e i suoi boschi.
          Altri.Tra le varie personalità artistiche che hanno soggiornato a Rocca, Tito Basili, studioso di cose roccheggiane vissuto nel secolo scorso elenca (oltre a quelle citate sopra): Goethe (di cui però non sono mai riuscito a trovare riferimenti specifici alla nostra città), Byron, Longfellow, George Sand, Wordsworth, Turgheniev, Hans Barth, Carducci, Maccari, Pirandello, Capuana, D’Annunzio, Antoniazzo Romano, Vincenzo Cabianca, Ettore Tito, Giovanni Battista De Rossi. Se non nelle opere, è molto probabile che nei diari o nella corrispondenza di tutti costoro sia citata Rocca di Papa e sarebbe bello se qualche giovane si dedicasse, magari scegliendolo come argomento per la tesi di laurea, a ricercare questi riferimenti.
           Fra le molte opere comparse negli ultimi anni occorre segnalare almeno quelle di Maria Pia Santangeli (in particolare “Boscaioli e Carbonai” del 2005) e quelle di Paolo Bassani.
       
  

          Carlo Maria Guarinoni.   Giornalista pubblicista, appassionato di storia, arte, tradizioni, vive a Rocca di Papa.  Ha diretto il giornale locale La spiga e codiretto la            Editrice La Spiga  che ha pubblicato una decina di opere su Rocca di Papa.
           E’ autore del libro Le chiese Parrocchiali di Rocca di Papa  (La Spiga 1998 ).

 

 

I boschi di Rocca di Papa nella letteratura  (Santangeli)

Brano tratto da :         Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani
di   Maria Pia Santangeli,  (Edilazio, Roma, 2005)
       

                  L’ atterrata   
                “Le piante dovevano cadere allineate come 'e saraghe, le sardine sotto sale nella cassetta. Quando cadeva vento possente di scirocco, non era possibile tagliare le piante, perché il tagliatore non le poteva guidare. Siccome il taglio del bosco è una vastità, comprende colli e valli, allora si apriva un' altra atterrata, per non perdere la giornata, onde guadagnarsi quella stozza di pane quotidiano.”   (Metardo Rufini, Rocca di Papa)

                    “Lo stronchinu non doveva stare mai fermo, altrimenti non usciva la giornata.”  (Domenico Eleuteri, Rocca di Papa)

     […] Quando la compagnia arrivava sul luogo del taglio albeggiava. Era punt'e giornu.
    Nella foschia mattutina i tronchi grigiastri dei castagni s' innalzavano dritti e slanciati, a gruppetti dalle larghe irregolari ceppaie coperte in parte di muschio. Il terreno era abbastanza libero dai cespugli del sottobosco,'a bassa fratta, che erano stati tagliati qualche giorno prima da altrimacchiaròli meno esperti e capaci dei veri tagliatori delle compagnie.
    In lontananza si vedevano mucchi ordinati di legna: anche ilegnaròli erano passati a tagliare il cosiddetto forte – querce e aceri, che si trovano sempre in un bosco di castagni – per farne legna da ardere o da carbone. Ormai non c' erano che alberi di castagno a perdita d' occhio pronti per essere abbattuti e diventare in breve tempo pali della luce e del telegrafo, travi, travicelli, filagne e paletti per le staccionate, paletti per le vigne, filagnoni per i tetti, rocchi da botte e poi pane, polenta, baccalà, aringhe, fagioli, olio, pantaloni, scarponi.
    I castagni non sono come i cristiani che, morti, non tornano. Nelle ceppaie la vita rimane e partorisce ricacci che in diciotto anni diventeranno alberi e poi ancora pali, travi, travicelli, filagne, filagnoni, paletti, rocchi. La vita cammina in modo semplice e chiaro  nei boschi di castagno ceduo.
    Ai boscaioli passava questo per la testa senza che se ne accorgessero, mentre attaccavano i tascapani a un ramo basso e appoggiavano le copelle o i fiaschi impagliati per terra. Trovarsi tra quegli alberi, respirare l' aria fredda e il silenzio, schiacciare sotto gli scarponi le foglie giallastre dell' anno, ancora coriacee, era come trovarsi nella propria strada, di cui conoscevano ogni selcio, ogni gradino e le facce della gente giovane e vecchia che ci abitava e quando nasceva un bambino nuovo era come un pollone da una ceppaia.
     Il lavoro iniziava subito: bastava riuscire a  vedere i segni della merca sui tronchi e il movimento dell' accetta. Gli alberi che dovevano essere risparmiati, le cosiddette matricine o guide, erano marcate con una striscia di vernice intorno al tronco; gli altri con punti e strisce diverse.
    Il capoccia dava un' occhiata in giro e decideva in fretta dove aprire il taglio: - Comincémo  ècco... (Cominciamo qui ).
    I tronchi dovevano cadere il più possibile in piano, anche se il bosco era in pendio, e allineati come sardine nella cassetta, per facilitare il lavoro del mastro, che stucchéa, cioè segava i tronchi  a terraco' u stronchinu, il segone dal manico adarco. Si diceva che'u stronchinu non doveva mai fermarsi, la lunga lama dai denti triangolari doveva stridere e stridere lasciando sul terreno tanti pezzi di varie misure che  'u rabbinatore aveva il compito di selezionare e di ammucchiare ordinatamente. Se si fermava il segone, non usciva la giornata, si diceva.
    I cinque o sei tagliatori si disponevano dunque più o meno in fila, uno per ceppaia. . Uno sputo sulle mani per fare meglio presa sul manico che era quasi sempre di quercia, costruito da loro stessi,  e iniziava il picchiare delle accette.
    Il ragazzo rabbinatore, che non poteva cominciare il suo lavoro in mancanza  dei pezzi da selezionare, non perdeva un gesto. Fra qualche anno ci voleva essere anche lui tra i tagliatori. Osservava con occhio attento 'a 'ngara dell' inizio, la spaccatura ad angolo acuto, detta anche a bocca di lupo, che deve essere aperta sempre dalla parte della caduta dell' albero. Poi le successive accettate che l' allargavano e l' approfondivano. La bravura del tagliatore si misurava dalla capacità di sprecare il minor legno possibile, facendo un taglio abbastanza pari alla parte interna della  'ngara. La forza delle braccia doveva obbedire all' occhio.
    Le accettate ora si susseguivano con ritmo costante, senza soste. Il bosco era pieno dei colpi sordi che si accavallavano, finché restava di ogni tronco una specie di sottile diaframma,  a ' recchia - cordone a Rocca Priora.
    Era il momento più delicato. Il tagliatore si aiutava a volte con le mani o con l' accetta dritta per imprimere al tronco la direzione giusta oppure co' u pungolu, un bastone a cui era stato applicato un chiodo senza capocchia. A volte chiamava un compagno o il ragazzorabbinatore perché lo aiutasse.
   - Attenti, che te casca 'n gapuuu!...
    Al momento dell' atterrata quasi inconsapevolmente tratteneva il fiato e si spostava un passo indietro ad aspettare il tremore della terra che sussulta sempre, come per un terremoto, ad ogni albero che si schianta al suolo.
    Mentre si calmava il rovinio dei rami a terra, l' uomo pareggiava il taglio facendogli 'a chierica o corona. Infine quando tutte 'e pertiche della ceppaia erano abbattute, si faceva strada fra le chiome a terra pe' sderamà, tagliare i rami. Lasciava però quelli delle punte: i tronchi in questo modo restavano stabili sul terreno quando venivano divisi in pezzi.
    Nel frattempo il mastro stuccatore - ce ne potevano essere più di uno nella compagnia – non era rimasto senza far niente.  Dopo essersi guardato intorno, aveva trovato senza difficoltà uno sbullentone - o bollentone - un legno lungo almeno un metro e mezzo tra il secco e il verde, grosso non più di un polso, perfetto per fare la misura.
    Lo tagliava, lo ripuliva e, aiutato dal suo assistente che teneva fra le mani 'u sbollentone, ci prendeva sopra le misure con un metro da sarta. E, mentre intaccava il legno per fare  'e 'ntaccche, spiegava: - La prima la faccio a un metro e trentacinque, la seconda a sessantacinque centimetri,  così insieme fanno due metri che è un passone ( paletto da staccionata ). Poi ecco 'na ntacca a ottantacinque, a novantacinque la bordolese, poi a un metro e cinque e a un metro e quindici. Chissi so' tutti doga de Spagna. Lo sa? Vanno in Spagna...
   - E chilli più luónghi?
   - Se ripete 'a mesura... Attenti, sa, no' me fa pià qua' crastica ( botta sulle mani). Succedeva se il movimento delle braccia del mastro e del ragazzo non erano sincronizzate.
    La misura, che ormai sarebbe sempre stata nelle mani del tirasegó, veniva messa da parte. Era stata fatta alla svelta, tanta era la pratica de'u stuccatore. Mentre la cosiddetta svergatura de' u stronchinu richiedeva più tempo.
    Per questo motivo alcuni stuccatori se la sbrigavano  il giorno prima a casa o in cantina. Altri invece preferivano eseguirla direttamente nel bosco. Avendo  il modo di fissare il segone tre due piante vicine, si sentivano più sicuri del risultato finale.
                  “Io svergavo sempre 'u stronchinu nel bosco. Era più comodo. Lo stronchinu deve essere svergato bene: se non  cammina, se non escono i pezzi, non esce manco la giornata.”   (Tullio Pizzicannella, Rocca di Papa).
    'U stuccatore cominciava dunque con pazienza: davanti, all' altezza del petto, aveva 'u stronchinu coi denti aguzzi rivolti verso l' alto e il manico arcuato in basso - il manico doveva essere di legno pieghevole di nocciolo, meglio se della Macchia Riccia.  Se nella compagnia c' erano più stuccatori, si vedevano, qua e là tra le piante, tre o quattro stronchini coi rispettivi stuccatori, che, con calma attenzione, limavano i denti a uno a uno da sotto in su, alternandoli prima da un verso poi dall' altro; poi controllavano che i denti fossero sfalsati, non allineati fra loro – questo si chiamava fare la strada o dare la via. In seguito la lama veniva 'cceppata, sempre con la lima affinché tutti i denti avessero la stessa altezza e infine ogni dente veniva di nuovo limato. Un' ora abbondante ci voleva.
     Nel frattempo che gli alberi  venivano abbattuti e cadevano rumorosamente e  glistuccatori erano alle prese co ' a svergatura, il giovane tirasegó e 'u rabbinatore, per non perdere tempo ed essere d' aiuto ai tagliatori, si erano messi a ripulire le ceppaie più avanti dei numerosi giovani polloni che le riempivano.
    - Forza, ch' è pronto!
    Così gridava 'u stuccatore, quando aveva finito di svergare, rivolto ai tagliatori che lo sentivano appena, lontani com' erano una sessantina di metri. Le piante a terra erano ormai parecchie.
    Il giovane tirasegó accorreva e afferrava la misura. Lo stuccatore gli faceva vedere la posizione che doveva assumere con il ginocchio sinistro piegato  e la misura appoggiata sopra.
    Si raccomandava ancora:  - Attenti, no mi fa' pià qua' crastica, te do 'nu sganassone...- Il mastro stuccatore non scherzava, gli schiaffi volavano davvero.
    L' uomo e il ragazzo si mettevano uno di qua e uno di là dal primo tronco. Il mastro stuccatore dava un' occhiata, una sola: l' esperienza e l' intelligenza del mestiere lo portavano quasi automaticamente a capire dalla conformazione del tronco quanti e quali pezzi se ne potevano ricavare con il minor spreco possibile  di legname. Il risparmio era nella mente di tutti.
   - Facemo ' n travicello, 'n passone.
    - Famme tre mesure, 'na mesura.
    Il giovane si spostava con la misura tra le mani e lo stuccatore intaccava la corteccia. Poi il segone iniziava il suo lamentoso stridio, lasciando cadere segatura umida.
    I tagliatori distanti continuavano a dare accettate in silenzio. I muscoli tesi si gonfiavano nello sforzo, il fiato serviva tutto. Oltre al tonfo dei tronchi che cadevano e al rovinio delle chiome, si udiva di tanto in tanto il grido: - Attenti, ché te casca 'n gapuuu!
    Mentre qualcuno più giovane poteva accennare a fior di labbra, per sé solo uno stornello:
          Me ne vojo ì macchia, macchia
          me vojo recoprì de fronne 'e nocchia,
           pe' vedé quanti amanti tè 'sta regazza.
          (Voglio andare nascosto, di macchia in macchia,
          mi voglio ricoprire di fronde di nocciolo
          per vedere quanti amanti ha questa ragazza ).
      Intorno alle nove cadeva la prima pausa della giornata, quella della colazione. L' altra detta merenda verso l' una e mezzo. La giornata lavorativa era, infatti, divisa in terzi, in tre parti.
    Alla voce del primo che gridava: - Magnemo...Riccardo ha fame – nominando scherzosamente un compagno della squadra, tutti, appena potevano, abbandonavano gli attrezzi su una ceppaia e s' incamminavano verso l' albero dei tascapani. Quasi sempre qualcuno raccoglieva una bracciata di rami secchi e preparava il fuoco; sotto metteva sempre stecchi di pungitopo o di nocciolo che si accendono subito, anche nell' aria più umida perché non trattengono l' acqua. I proprietari mal tolleravano che venisse adoperata per il fuoco la legna già accatastata dai legnaròli, specialmente se era di quercia, qualità pregiata che si vendeva bene, ma molti la prendevano lo stesso.
    Mentre uomini e ragazzi tiravano fuori il pane dai tascapani, una breve assoluta quiete calava sul gruppo. Fiamme veloci guizzavano, riscaldando le mani, i calzoni, mentre il fumo saliva lento verso le chiome ancora fitte di foglie giallastre. Venti minuti di riposo, di morsi rumorosi, voraci al pane che, dovendo bastare anche per il pranzo - merenda era un sacrificio non consumare tutto subito. Mezza pagnotta di pane asciutto, un po' intenerito dai fagioli che le madri o le mogli ci avevano messo dentro, dopo aver tolto parte della mollica. O dentro c' era la frittata di patate con broccoletti di rape o la cipollata nel sugo di pomodoro con qualche raro pezzetto di baccalà o una striscetta di pancetta che veniva riscaldata sul fuoco infilata in uno stecco, per fare ' a panontella. Ai pettirossi,  che si avvicinavano quasi domestici, poche briciole con parsimonia.
    Da bere a garganella  l' acqua delle copelle, piccole botticelle di legno, che ormai possedevano solo i più anziani o quella di un fiasco di vetro impagliato più soggetto a rompersi, purtroppo. Bisognava ricomprarlo, e anche questa spesa incideva sul bilancio familiare. Il vino non era frequente – in campagna se ne beveva di più -  perché dà sonnolenza: i boscaioli volevano restare lucidi, non si sarebbero sentiti sicuri adoperando quegli attrezzi taglienti. Semmai, per non sentire il sapore scipito dell' acqua, si portavano l' acquatu, detto anche serafischiu, il vinello - più acqua che vino - ricavato dalla torchiatura delle vinacce innaffiate d' acqua. In primavera quando veniva più sete, se scendeva una pioggia, qualcuno incideva  dei canaletti obliqui su un tronco e, con un pezzetto di scorza in fuori, si faceva come una fontanella. Però era insipida e puzzava di corteccia.
    Pochi i discorsi, il fiato riprendeva il suo ritmo naturale. Soprattutto di lavoro si parlava: del tipo di legno che si era trovato, quali e quanti pezzi  se ne potevano ricavare. Ma il capoccia della compagnia aveva già fatto una sua valutazione ad occhio, guardando le piante “ in piedi “ e raramente si sbagliava.
    Spesso nelle compagnie si trovava il solito chiacchierone, conosciuto in paese per averne sempre una da raccontare, così qualche aneddoto veniva fuori, tra un morso e l' altro...
    […] Le risate venivano spontanee anche se l' aneddoto era conosciuto. Ma il lavoro soprattutto teneva occupata la testa e veniva ripreso senza perdere tempo. Le piante ricominciavano a cadere: un bravo tagliatore poteva abbattere dalle ottanta alle cento pertiche al giorno. E 'u stronchinu non si fermava veramente mai, se non quando era necessario rifargli la strada e dare una veloce limata ai denti, che dopo un po' segavano con più fatica.
    L' occhio del mastrostuccatore restava  di continuo vigile e attento ai pezzi da produrre.
    - Facemo 'na filagna...
    - Qui ci sta  'a cipolla a rampa 'e gallina ( zampa di gallina). Non si possono fare i tavoloni, né doga di Spagna: passa l' acqua. Se non continua facemo i rocchi.
    Il ragazzo si muoveva svelto con la misura tra le mani.
    […] Se il taglio del bosco era abbastanza vicino al paese, a mezza mattina o nel primo pomeriggio arrivavano donne e ragazzette  con bagnarole di metallo sotto il braccio: venivano a raccogliere'e tacchette - tacchie a Rocca Priora - i pezzetti di tronco che schizzavano via  dai tagli dell' accetta. Erano buoni per accendere il fuoco e per alimentare la stufa. Non costavano nulla. In seguito le donne sarebbero venute a raccapezzare altri scarti: 'e schiazze dalla squadratura dei travicelli e di altro legname e i canali dalla scorzatura dei pali. Buttatura o ciocchettu era detto un pezzo del tronco contenente un grosso nodo, veniva scartato da ' u stuccatore e ammucchiato nella legna da ardere, le donne non potevano prenderlo.
    Arrivavano a gruppetti: - Riccà, piàmo 'e tacchette – diceva una di loro con una sfumatura di preghiera nella voce. Sapevano che i boscaioli non le volevano tra i piedi per timore di qualche incidente.
   - Sì, ma allontanatevi, perché  'e pertiche ve cascanu 'n gapu...
    Le donne si buttavano svelte a raccogliere 'e tacchette, scavalcando i tronchi e i fitti rami a terra.
    […].

          Maria Pia Santangeli.  Toscana di nascita, ma di famiglia rocchigiana, vive a Rocca di Papa da quarant' anni.
             Ha pubblicato  Rocca di Papa al tempo della crespigna e dei sugamèle  e   Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani,  entrambi editi da Edilazio e due libri per ragazzi: le quattro fiabe de   Il Principe degli specchi  ( Sovera 2000 ) e il breve romanzo ecologico ”Arbìn bambinoalbero” (Ragazzi editors2008 ).
              Nel 1996 ha fondato a Rocca di Papa l' Associazione culturale  L' Osservatorio.
              Sempre a Rocca di Papa ha ideato e organizzato per tre anni una notte di cultura - e natura - denominata  La notte verde.

           Collabora saltuariamente a giornali e riviste locali. E' orgogliosa di aver piantato e fatto piantare alberi.

 

 

Varie

 

Terminato il convegno di oggi, chi poi cercherà risposte a domande sulla castanicoltura, a chi deve rivolgersi?  (Grassi)

   Su internet ora si trova quasi tutto, ma c’è fin troppo e occorre avere molto tempo per discernere.
Molti sono i professionisti privati capaci (Agronomi e Forestali), che danno consulenze a enti pubblici e privati (Associazioni ed altri).
  Le  Organizzazioni professionali agricole (la Coldiretti e la sua diramazione Copagri, la Cia, la Confagricoltura) hanno apparati di consulenza propri.
   I divulgatori pubblici nel Lazio fanno capo all’ARSIAL.  Questa Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l'Innovazione dell'Agricoltura del Lazio, è l’ente pubblico preposto a trasferire leinnovazioni tecnologiche alla produzione agricola, zootecnica e agro-industriale, attraverso azioni di Sperimentazione e dimostrazione in sede applicativa delle innovazioni, Divulgazione dei risultati della sperimentazione, Formazione professionale degli operatori, Sviluppo e diffusione dei metodi di produzione ecocompatibili e/o biologici.  Sul castagno da frutto ha molta esperienza.
  Cercando in www.arsial.ito in  arsialweb.it (e incrociando le voci di ricerca Territorio e Aree tematiche), si vede che si possono chiedere notizie sia alla Sede centrale (via Lanciani 38, 00162 Roma : Ufficio Relazioni col Pubblico  tel. verde 800601931,  e-mail [email protected]),  sia ai suoi  Centri provinciali (Frosinone, Latina, Rieti, Viterbo), sia direttamente agli esperti delle Aziende dimostrative sperimentali (studiano settori agricoli diversi, e stanno a Tarquinia VT, Caprarola VT, Cerveteri RM, Montopoli RI, Alvito FR).
   Per il castagno ci si può rivolgere alla Azienda Dimostrativa Sperimentale di Caprarola: Loc. San Rocco Strada Cassia – Cimina km 16,400 - 01037 Caprarola (VT), Tel. 0761-646162 -  Fax 0761-645287, [email protected].  Responsabile è il dr. Bizzarri Stefano, [email protected]. A Caprarola è operativo un centro di moltiplicazione Torymus sinensis.
   Presso il  Centro Vitinicolo Arsial di Velletri  (Via della Cantina Sperimentale 1, Velletri RM, Tel. 06-9639027, Fax 06-9634020)  è in allestimento un altro centro di moltiplicazione Torymus sinensis.
   E’ utile sapere che l’ Azienda dimostrativa di Alvito  ha esperienza di forme di integrazione di reddito in aziende a conduzione familiare operanti in un contesto di agricoltura marginale (con introduzione di coltivazione di lampone, il ribes e l’uva spina e altri piccoli frutti); e di trasformazione dei prodotti agricoli (produzione di marmellate, sott’oli, ecc.), a livello famigliare.
Azienda Dimostrativa Arsial di Frosinone, Sezione di Alvito (c/o Azienda dell’Istituto Agrario di Alvito),  Via Stradone snc - 03041 Alvito (FR). Tel. e Fax 0776-513018.  Responsabile è il dr. Franceschini Pietro.
  Tutti i consulenti e divulgatori suddetti, quando occorre attingono ulteriori informazioni dal mondo scientifico rivolgendosi ad esperti di superiore livello (CRA, Università, CNR, ecc), con i quali spesso anche collaborano per ricerche, sperimentazioni, divulgazioni.

 

La Comunità Montana ha tanti Comuni che fanno legno, perché non li mette insieme? Come mai non si riesce a costituire una cooperativa, a Rocca di Papa che ha 1500 ha a castagneto?  (Grassi)

Sia il Presidente della Comunità Montana dottor De Righi, sia l’assessore al Bilancio del Comune di Rocca di Papa dott.ssa Sciamplicotti, hanno riferito di aver svolto attività informativa, riunioni, indagini conoscitive in proposito,   evidenziando agli operatori e ai cittadini (potenzialmente interessati in quanto già imprenditori o disponibili) l’utilità di programmare iniziative comuni che si avvantaggerebbero di fondi pubblici.  Senza esito. Evidentemente, l’associarsi desta ancora diffidenza. Si diffida molto anche dell’efficienza degli enti pubblici.

 

(indietro)