La Daniella – vol. 2, pag. 256

(George Sand)

 

 

La Daniella – vol. 2, pag. 256

… Temendo che il curato di Frascati fosse sul chi vive, ella decise che si sarebbero sposati a Rocca di Papa, dove contava di trascorrere i primi giorni di matrimonio. Dunque, fu un rapimento in piena regola quello che Brumières ci annunciò festosamente, arrivando a scegliermi come uno dei suoi testimoni, favore del quale non mi sentii di ringraziarlo, non volendo far nulla che potesse dispiacere a lady B**.

Ed è proprio a Rocca di Papa che, incontrando il futuro sposo, ricevemmo questa confidenza. Vi era andato per esaminare il posto. Mentre noi  ci eravamo andati  per svago e, quanto a me, soprattutto per osservare i bambini, perché in questo paesello ce ne sono a mucchi e, in questa stagione, vanno in giro pressoché nudi. Per cui si possono studiare tutti i loro movimenti in piena, naturale libertà.

Non ho mai visto nulla di così strano e pittoresco, in fatto di costruzioni, come il borgo di Rocca di Papa. Vi ho già descritto la gola selvaggia che occupa il fondo del precipizio del “buco”. Avevamo lasciato questo luogo deserto alla nostra sinistra e seguito il percorso più largo e più dolce che sale verso l’abitato attraverso i boschi di castagni,. Daniella, passando vicino alle “tre pietre”, distolse lo sguardo per non vedere la radura nella macchia dove mi aveva sorpreso con Medora. Quel luogo le ricordava l’unico dispiacere che ci eravamo causati reciprocamente.

Rocca di Papa è un cono vulcanico coperto di case ammucchiate le une sulle altre che culmina in una vecchia fortezza diroccata. Le cantine delle abitazioni si appoggiano ai granai delle altre: le case si susseguono lungo il pendio senza interruzione; il minimo soffio di vento fa piovere tegole e scricchiolare sostegni. Le vie, quasi verticali, diventano scale che, a loro volta, finiscono nei blocchi di lava che sostengono una scarpata difficile da affrontare ed è affiancata da un vecchio albero, pendente sull’abitato come un vessillo sulla punta di un campanile.

Tutto è vecchio, crepato, sconnesso e nero come la lava da cui è uscito questo ricettacolo di miseria e sporcizia. Ma, sapete, tutto ciò per un pittore è fantastico. Il sole e l’ombra si urtano violentemente su angoli di roccia che fanno capolino da tutte le parti fra le case, su facciate che si sporgono le une sulle altre e improvvisamente si curvano per assecondare i movimenti del suolo aspro e tormentato che le sostiene, le comprime e le separa. Di quando in quando, come nei vicoli di Genova, degli archi rampanti collegano i due lati delle strette viuzze e questi ponti fanno essi stessi da strada agli abitanti della zona più in alto.   

Tutto, dunque, è precipizio in questa città folle, rifugio disperato dei tempi di guerra, annidato nei luoghi più scomodi e impossibili che si possano immaginare. I confini della pianura stepposa intorno a Roma sono orlati in diversi punti da questi piccoli e appuntiti coni vulcanici, tutti con il loro piccolo castello in rovina e il paesello a forma di pan di zucchero, che cade e risorge continuamente soltanto grazie alla caparbietà dell’abitudine e all’amore del campanile.

Tanta ostinazione si spiega col buon vino e col bel panorama. Ma questo è ottenuto al prezzo di una perenne vertigine e l’aria è viziata dal lerciume delle abitazioni. Donne, bambini, vecchi, maiali e galline razzolano confusamente fra i liquami. Tutto ciò compone dei gruppi davvero pittoreschi e spesso quei poveri bimbi, nudi al vento e al sole, sono belli come Amori, ma il cuore si stringe lo stesso. D’altronde, credo che non mi abituerò mai a vederli correre sull’orlo di quei precipizi.  L’incuria delle madri, che lasciano i loro piccoli di un anno appena camminare e muoversi come possono su quelle spaventose scarpate è qualcosa di inaudito e mi è parsa orribile. Ho chiesto se non succedano spesso degli incidenti.

-          Sì, mi è stato risposto tranquillamente. Muoiono parecchi bambini e anche dei grandi. Che volete? Il paese è pericoloso.

Per farmi un’idea dell’esistenza di quegli esseri sono entrata in una di quelle povere case e sono rimasta sorpresa dalla quantità di provviste e di utensili ammassati in quel tugurio malsano. Giare e barili pieni di legumi, castagne, granaglie e frutta secca; scaffali traboccanti di pannocchie, di cipolle, di formaggi, di carne di maiale salata; vasi di terracotta, di legno e di ceramica: vestiti nella tinozza della lisciva; letti enormi; immagini pie, rosari benedetti, statuette e reliquiari. Tutto è in disordine e così ammassato che intorno al camino, fra il tavolo e i letti, resta appena lo spazio per posare i piedi e passare senza schiacciare o rovesciare qualcosa.

Questa abbondanza caotica, coperta di sporco e di insetti mi dà da pensare. Queste persone, dunque, sono provviste di tutto ciò che è necessario alla vita, il suolo è fertile e costoro possiedono dieci volte di più degli alimenti e dei mobili della maggior parte dei lavoratori giornalieri del nostro Paese, le cui casette pulite e ben ordinate non si riempiono mai se non di ciò che di giorno in giorno è strettamente necessario. Da noi il povero non ha proviste per le annate cattive, lavora per il pane dell’indomani e si affanna per un po’ di legna; la donna lava e rammenda senza tregua i poveri abiti della famiglia. Qui non esistono annate cattive; si raccolgono e si accumulano le derrate più varie fin sotto il cuscino; si ingrassano gli animali domestici fin sotto al letto; si pagano gli avventizi per coltivare la terra e non si aggiustano i finimenti delle bestie; non si lavora, ci si lascia divorare dagl’insetti; ci si crogiola al sole e si tende la mano al passante: ecco l’esistenza nelle località fertili e sane. Qual è la ragione di tutto ciò?

Risponderete voi; io riprendo il mio racconto. Siamo usciti dal paese, non senza affanno, per una viuzza stretta, ripida e scivolosa per i liquami, sulla quale passava una carovana di muli carichi di ginestre che non lasciavano spazio ai passanti e che non si potevano fermare per la discesa. Avevamo fretta di fuggire da quegli spaventosi bassifondi dove, tuttavia, dalla finestra di ogni immonda baracca, l’occhio si tuffa su abissi di splendido verde, su piccoli laghi brillanti, su deliziosi sentieri e su immensi orizzonti di montagne opaline. Camminando non più di dieci minuti siamo arrivati alla sorgente del “buco”.  

E’ una fonte abbondante che si getta in grandi abbeveratoi di pietra bianca, pittoreschi lavatoi scavati nella roccia fra le cime selvagge. Le acque si disperdono in rivoletti che gorgogliano su un suolo di rocce ondulate e, dopo pochi passi, si riuniscono e vanno a inabissarsi nel buco.

Eravamo sui pianori formati dalle immense terrazze fra i monti Albani e quelli Tuscolani, non lontano dal preteso Campo d’Annibale. Sotto ai nostri piedi, nella gigantesca fenditura della roccia che cercavamo di costeggiare, precipitava la cascata e si elevavano le merlature in rovina della piccola torre dove ho passato ore così felici e così tristi.

Di percorribile, lì, c’è soltanto un sentiero spaventoso dove non volli che Daniella si azzardasse a passare. Mi rassicurava pensare che, sia dall’alto che dal basso, la bella, fantastica cascata e la torre sono quasi impossibili da scorgere senza rompersi il collo. Le strane forme di questi spiazzi, abbarbicati suconi tronchi od aguzzi, e le formidabili spaccature dei loro fianchi impervi attestano le convulsioni violente delle ere vulcaniche. Su uno di questi spiazzi, dove un vento fresco le soffiava impetuosamente fra i capelli, Daniella raccolse per voi delle genzianelle di un azzurro venato di rosa e dei piccoli giacinti selvatici: delle piante adorabili sia per la forma sia per il colore, ma delle quali non riceverete che lo scheletro.

Daniella era triste mentre coglieva quei fiori guardando l’aspro paesaggio che ci circondava: pianure incolte, valloni impraticabili, ruscelli senza un alveo che formano paludi fino alle cime battute dal vento: e tutto questo si estendeva da un lato fino a Monte Cavo (Mons Albanus) e dall’altra fino alle pendici dell’arx di Tusculum che, vista dall’alto, è molto più vicina di quanto avessi immaginato dal mio rifugio nel precipizio.

 

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